A suo tempo dissi di un'epoca in cui Manchester e Canterbury erano state vicine come non mai - potenza dei suoni, a dispetto della distanza geografica. Ora dirò di un'epoca (pressoché la stessa, poi) in cui Sheffield e San Francisco arrivarono quasi a raggiungersi.

Sheffield, per l'appunto. Perché?

A Sheffield - fine anni '70, primi '80 - non c'era nemmeno un gruppo punk. O meglio: il punk era presente, suonava sui giradischi, lo si leggeva sulle riviste, ma a Sheffield era morto prima di evolversi. Anzi, non era nemmeno nato. Era passato senza lasciare traccia. Londra bruciava, ma a Sheffield non gliene fregava un fico secco di Clash e Pistols, se Joe Strummer fosse effettivamente punk o se fosse un ex pub-rocker conquistato dai nuovi impeti. Questioni secondarie, indifferenti. Londra bruciava, ma nessuno a Sheffield avrebbe pisciato per spegnere le fiamme. Sheffield, dai tempi del decollo industriale, aveva FATTO la rivoluzione: ora che la rivoluzione era altrove, non l'avrebbe seguita. Il cielo grigio del Nord, le ciminiere, l'acciaio, il rumore delle fabbriche: questa la realtà, a Sheffield. E nei garage non si suonava "garage"-rock (come da definizione), ma si portavano registratori e sintetizzatori. Bastava anche un monolocale, uno spazio minimo per due persone. Perché della batteria si poteva anche fare a meno. Nell'era del pogo selvaggio al frastuono di piatti, cassa e rullante, Sheffield era la città - gelida - senza batteristi. La città in cui il rock come l'avevano sempre inteso non esisteva più, mentre nasceva qualcos'altro...

...a Frisco nasceva una band, e gli anni erano sempre quelli. FACTRIX era il suo nome. Quando Bond Bergland, Cole Palmer e Joseph Jacobs iniziarono la loro attività sotterranea, la questione-batteria non fu nemmeno sollevata. Qualcosa di superato, ormai. Nella città dei Tuxedomoon, del resto. Ma il progetto Factrix fu - fin dall'inizio - una delle cose più estreme e assurde mai apparse sulla scena locale. L'aritmetica BASSO + ELETTRONICA + (RADIO)CHITARRA sembrava prefigurare una macchina da guerra che avrebbe rovesciato ogni possibile luogo comune. I Factrix non suonavano "strumenti", come loro proclamavano - suonavano "manufatti industriali", aggeggi costruiti contro ogni logica che non fosse quella di sperimentare il "mai provato". Bergland suonava una sei corde trattata e deformata dall'elettronica da laboratorio: una cosa che aveva la forma di una chitarra ma un suono che richiamava più Manuel Gottsching che il 95% del rock "canonico". Un Helios Creed più estremo e psicolabile della sua versione originale, uno scienziato delle vibrazioni dietro a cui lavoravano: 1) uno dei più grandi "ingegneri" che la musica giovane abbia mai avuto (Tommy Tadlock), il creatore delle armi con cui - sulle orme di PiL e altri iconoclasti - si doveva "dar morte al rock"; 2) un inventore a pieno titolo, un pazzo elevato a teoreta assoluto, il cervello - malato - dell'operazione: Mark Pauline. Un ex-allievo del famigerato Eckerd College, in Florida, dove sembravano essersi dati appuntamento altri "disturbati" del calibro di Arto Lindsay e Marc Cunningham. Testa pensante degli SRL (Survival Research Laboratories), pianificava a tavolino il modo in cui il gruppo avrebbe dovuto: sconcertare, terrorizzare, disgustare il pubblico. Fino al vomito o - meglio - allo svenimento.

Se i Factrix versione-live erano un carro armato (e il termine è tutt'altro che casuale), grossa parte del merito va a Pauline e alle sue creazioni. Quella che meglio riassume tutta la morbosità necrofila del progetto è il RABOT ----> RABBIT + ROBOT. E che è, direte? Un abominio. La sintesi mostruosa (ma anche mostruosamente geniale) di cavi elettrici, acciaio e carcassa di coniglio in decomposizione. I tre della band l'hanno portato in scena nei loro happenings (affettuosamente lo chiamavano "Piggly Wiggly", "porcellino ancheggiante" !!!) e al momento opportuno Pauline lo azionava contro il pubblico, con fucili ad aria compressa ad accompagnare l'ingresso dell'ospite; e mentre il piccolo automa veniva trainato da una catena, frecce sparate dai fucili lo facevano a pezzi, col risultato che sulle teste dei presenti iniziava a cadere una pioggia di carne putrefatta e lerciume vario. Immaginatevi la scena, se potete. Immaginatela mentre la band suona una versione da 20 minuti di "Helter Skelter" e allora avrete un'idea abbastanza precisa.

E dopo una premessa così (che occupa quasi tutta la pagina, ma il CONTESTO qua era determinante...), rimane da dire che: sono seminali questi solchi targati Subterranean, dove psicotiche/cHromatiche deviazioni emanano da una chitarra trapana-timpani e da una simbiosi basso/elettronica rallentata-accelerata perfetta per il post-punk più tetro e più POST (appunto!) mai ascoltato. Pensieri demenziali infilati dentro messaggi subliminali di voci robotiche - le ascolti di tanto in tanto, scivolare sopra e sotto il "muro". La colonna sonora di una futuribile realtà post-bellica, dove solo un lancinante feedback senza fine rimane - rumore residuale di un' esplosione atomica. La Germania, i Velvet Underground (ma più quelli del SECONDO disco, badate bene...), sadico rumorismo puro su giochi di nastri e costruzioni ambientali scheletriche - depresse - disperate.

Mosaico inestricabile ma sublime nella sua realizzazione finale, dove si può perfino giocare a rintracciar qua e là quelle influenze di musica corale BULGARA (???) che Bergland dichiarava fra le sue massime fonti ispirative. Alla luce di ciò, non disdegnerei un fugace sopralluogo dentro la sua testa.

E adesso scusate se ho scritto a fiumi, o magari così vi sembrerà, ma io per certe cose mi accaloro.  

 

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