Daniel Miller, fondatore della Mute Records nel lontano 1978, ci aveva visto giusto. Stipulò il primo contratto della sua neonata etichetta con un tale che all'anagrafe si chiamava Frank Tovey. Ma per gli altri era Fad Gadget. Questo strano uomo, dalla faccia scarnita e dai tratti un po' inquietanti, conserva tutt'oggi una stima infinita da parte di un nugolo di fans, che continuano a rendergli tributo quasi con devozione. Per il resto invece non è quasi nessuno, dimenticato completamente tra gli scaffali e le mensole polverose del rock. Rappresenta quindi più che mai il caso di un artista di "culto", persosi tra i meandri di una carriera controversa ma dell'ottimo valore artistico.

Fad aveva talento, e grande stima da parte dei suoi colleghi. Pensate che i Depeche Mode gli facevano da spalla nei suoi concerti. Dopo 15 anni i ruoli si sono invertiti. Ma perché non ha riscosso ciò che meritava? Fad era un personaggio scomodo. Non cavalcava le mode. Non era un intellettuale dei synth, la sua musica non aveva il sapore zuccheroso dei melodismi new-romantic, ma nemmeno la violenza brutale e devastante dell'industrial. Ma soprattutto Tovey incuteva un po' timore, e questo gli alienava le simpatie di molti. Sul palco era un grande frontman, una sorta di Dave Gahan più perverso, dal forte carisma, ma i suoi testi erano spesso di denuncia sociale. Lo stesso titolo di quest'album, è un non tanto velato richiamo al marcato nazionalismo di quell'Inghilterra di inizio anni '80. In particolar modo fu colpito dalla guerra nelle Falkland, e decise così di comporre quasi un concept.

"Under The Flag" è il suo terzo disco, stampato nel 1982. I Depeche, della stessa scuderia, sfornavano all'epoca esili ritornelli orecchiabili, lui invece si spingeva oltre. Non rinnegava la melodia, anzi, ma le sue composizioni avevano una forza decisamente superiore. Immaginate dei DAF meno rozzi, con un gusto per l'arrangiamento e la melodia decisamente superiore. Il suo suono potrebbe essere definito come un incrocio ben riuscito tra l'industrial e il synth-pop. Tovey non aveva né l'esasperata brutalità del primo, né la banalità del secondo, aveva invece un senso del ballabile ed un registro "epico" davvero invidiabili. La sua voce era profonda e baritonale, intonata in maniera sinistra, priva però del calore di un Gahan. Era anzi spesso fredda e distaccata, perfettamente integrata nell'atmosfera del suo sound. Le voci femminili, ora cori, ora cantilene dolci, giocavano un ruolo fondamentale, donando un sapore "ibrido" ai brani.

Si comincia con la canzone che dà il titolo all'album, nella quale un brusio di sottofondo segna l'ingresso perentorio di una drum-machine "pesante", simile ad una frusta. Ed ecco la voce di Tovey, quasi un canto-racitato, interrotta solo da un semplice giro di synth. Questo è l'unico brano stretto parente dell'ebm dei DAF, con un ritmo fortemente ballabile e ripetitivo.
Ma già subito dopo, con "Scapegoat" si entra in territori più miti. Un pezzo sintetico "deviato", obliquo, dove compaiono le innocenti melodie dei primi Depeche, ma anche i cori e le cantilene femminili, l'alienante cantato di Tovey, e delle note sintetiche a metà strada tra l'onirico e il bucolico. La sua musica, soprattutto in questo disco, era "strana", non ben definibile, ma possedeva una creatività superiore alla media. Era anche in alcuni casi fortemente coinvolgente. Si prenda ad esempio la successiva "Love Parasite", degna dei pezzi più alla moda del periodo, fortemente trascinante con il suo orecchiabilissimo ritornello. Su tutto però, aleggiava una componenete sinistra, inquietante e sottilmente perversa.
Il ridicolo verso a cappella che introduce "Plainsong" è emblematico. Un crescendo quasi da messa, tra controcanti famminili e scherzi da bimbi. Ci si aspetta che il ritmo entri prima o poi, ed invece niente. Tutto il brano si snoda su questa bizzarra architettura.
Ma Fad si rifà ampiamente su quel capolavoro che è "Wheels Of Fortune", tra cori gospel, note di piano martellanti e malinconiche, snocciolate su un tappeto epico, accarezzato anche dal caldo fiato di un sassofono, opera di Alison Moyet, e da un finale di archi orchestrali sintetici. Un pezzo distante anni luce dai più corrivi tormentoni del periodo. Eppure inspiegabilmente sconosciuto.
Meno incisiva, ma sempre su ottimi livelli, "Life On The Line", quasi una reprise della precedente. Subito dopo ecco arrivare un altro momento di forte tensione: è "The Sheep Look Up", splendida gemma di onirismo e drammaticità, arrangiata con grande gusto, con un ritornello epico da brividi. Praticamente è la sua versione di "Little 15" dei suoi compari Depeche Mode, 5 anni prima e con più classe.
Un cupo rimbombo ed un rintocco funereo di pianoforte aprono "Cipher", uno snervante viaggio di quasi 5 minuti nella pische di Tovey, ipnotico e disturbante. Sempre lo stesso rintocco, sempre le stesse minimali note maligne... ed un flebile lamento di un morboso pretendente alla follia.
Il passo seguente è quasi un inno alle membra del corpo, scosse da un ritmo irresistibile, impegnate a levare le mani al cielo durante questa danza ossessiva, un sabba decadente di grande fascino.
Il discorso termina da dove era cominciato, con il ritorno del brano iniziale, ma con un testo diverso, e con la lapidaria conclusione finale che racchiude tutto lo spirito del disco: "Under the flag boy, under what flag?"

Frank Tovey ci metteva il cuore nelle sue composizioni, lo stesso cuore che lo ha tradito il 3 Aprile del 2002, fermandosi per sempre in quella Londra che non lo ha mai ricompensato del suo talento. Adesso che è uno dei tanti martiri del rock, sarà riesumato? Oppure la terra che ricopre le sue gesta crescerà ancor di più col tempo? A voi la prima spalata.

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