Non mi piacciono gli stereotipi. Non mi piace quando si giudica un libro dalla copertina. Quando si giudica qualcuno in base all’aspetto. Quando si minimizza. Succede troppo spesso anche con la musica e di riflesso questa cosa la subisce chi la ascolta.

Ho vissuto e vivo ancora oggi (a maggior ragione) questo tipo di discriminazione, tipicamente subìta da chi ascolta il genere che amo: il metallo pesante e suoi affini. In un paese abituato e guidato (non me ne vogliano gli amanti del genere) dalla musica leggera, vige una sorta di prevenzione verso qualcosa di più intenso, più potente, che arriva da più lontano. Tocca sentire frasi come “E’ la musica del diavolo e dei satanisti!” oppure “Ruttano nel microfono, non si capisce niente!” e ancora “Come si fa ad ascoltare certa roba!” La cosa fa rabbia, fidatevi (e datemene atto). Perché è brutto vedere che non si riesce a scavare (serve farlo poco) per vedere quanto significato e quante emozioni si possono trovare in quelle chitarre distorte, in quei rullanti che accompagnano parole che entrano dentro e scuotono l’anima.

Taluni non lo vedono come un problema, talatri si. Altri ancora si atteggiano a rocker chiudendo tre dita nel pugno e allungando le altre due, nel goffo tentativo di sentirsi parte di una cultura dalla quale però si tengono alla larga per i sopracitati motivi. Lo fanno perché fa moda, perché fa “cattivo”. Indossano le t-shirt dei Nirvana, dei Pantera, dei Metallica, dei Pearl Jam, ignorando completamente ciò che si cela dietro la loro presunzione.

Perché di questo sfogo travestito da Filippica? Il motivo è semplice: I Five Finger Death Punch rappresentano ampiamente questa categoria. Con il loro aspetto tamarro, le mazze da baseball, l’atteggiamento aggressivo e il groove ipnotico.

Il loro nome deriva da un famoso kung fu movie “The Five Fingers of Death.” Titolo che a sua volta pare derivi da una mossa tipica del mondo delle arti marziali. Il vocalist Ivan Moody, dotato di una capacità vocale notevole, è affiancato dai chitarristi Zoltan Bathory (anche bassista, co-fondatore della band con l’ex batterista Jeremy Spencer) e Andy James, dal bassista Chris Kael e dal batterista Charlie Engel.

Il disco in questione, “F8”, rientra di diritto tra i dischi più significativi della mia esistenza. Non c’entra la prima cotta, l’incazzatura per l’amore finito, le riflessioni sulla rabbia provata verso chi ci vuole male. C’entra la rinascita.

Perché, per la band di Las Vegas, questo è a tutti gli effetti il nuovo punto zero, il lavoro dal quale riparte tutto. Per me è stato il punto di ripartenza, il momento in cui ho sconfitto i tremendi demoni che mi avevano ridotto male e mi avevano fatto pensare che la vita non contasse più nulla.

Ivan Moody ha vissuto il suo lungo incubo personale tra il 2014 e il 2017, tra dipendenza da alcool e violenza, fino ad arrivare ad essere quasi cacciato dalla band che lui stesso aveva fondato. Si è presentato almeno due volte ubriaco fradicio sul palco, fino ad abbandonarlo tra imprecazioni e poche spiegazioni. La rehab seria e poi la totale rinascita, nel 2020. Ironia della sorte, durante un periodo difficile e dispersivo per l’intera umanità, Moody è tornato a vivere, a dedicarsi a ciò che ha sempre amato, come il sottoscritto, per l’appunto.

“F8” è potente, a tratti straripante ma anche riflessivo e carico di motivazioni. Tracce come “Inside Out”, “Full Circle”, “Bottom of the Top”, “This is War” sono farcite di chitarre speed metal e tanto growl. L’ammissione di colpa e la voglia di ricominciare si annidano nella ballad “Brighter Side of Grey” e nella radio friendly “A Little Bit Off”, quest’ultima affiancata da un video molto ben fatto, girato nel pieno della pandemia sulla Strip deserta di Las Vegas, partendo dalle acque artificiali dell’hotel Bellagio. Il titolo del disco richiama l’ottava pubblicazione ma è letteralmente l’abbreviazione di “Fate”, attraverso il richiamo all’infinito.

E’ di settimana scorsa l’annuncio shock di Ivan Moody, che dal palco ha dichiarato che dopo la pubblicazione del decimo album (è da poco uscito il nono, “Afterlife”) lascerà il metal e forse la musica, per dedicarsi alla famiglia che sente di aver trascurato. Dopo aver girato il mondo per ben due volte, ottenuto il successo ma soprattutto aver ritrovato se stesso, Ivan si è reso conto che la vita è breve, anche se la sua musica è rivolta all’infinito.

Quella musica che nelle sue mille sfaccettature aiuta a crescere, rialzarsi dopo essere caduti, diventare chi abbiamo sempre voluto essere. Al di là del nostro aspetto e di come abbiamo voluto dire a tutti cosa nascondiamo nella mente e nel cuore. Perché è importante dirlo, indipendentemente da come lo facciamo.

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