Tanto sgrossare il suono di questo “Shore” sotto la pioggia battente in questi frangenti è inattuabile. Per di più l’acqua non è tanto quella molecola che si dice. Giornate opache poi, intendi, sparse di “rompicazzismo”. Per fortuna, da salvare in fretta, in questo 2020, c’è il ritorno di Robin Pecknold col brulicare del folk-rock della sua raffinata creatura indie. Già, l’impressione prima, subitanea, è che la sua classe compositiva, lo porti ben al di sopra del panorama contemporaneo e circostante. L'incanto corre indietro agli esordi ma senza paesaggi bucolici e filastrocche fiabesche; se distante, poi, dalle intricate soluzioni prog-folk di “Crack-Up”, ne matura però le conseguenze tematiche in tattili canzoni dell’esperienza. Nitide armonie vocali, arrangiamenti complessi ma non pesanti, come a dirigere con grazia il libero ribollio del mare.

Ma l’acqua non è l’elemento principale, l’omeomeria dell’album. Almeno, non più dell’aria. Del vento flesso sui flutti cristallini. “Shore”, quarto album della folk band di Seattle (che dirlo pare quasi un ossimoro), ha una leggerezza ariosa e una forza invisibile; spinge come il vento la marea ma piega anche le spighe. È il vento che spezza la clessidra. Affina un canto splendente -tra fiati sospesi e voci diverse- , seppure sullo sfondo a emergere sia il tema della morte, in compagnia di un ineludibile senso di sconfitta e di altri numerosi, incipienti disagi esistenziali. Ma con la benedetta voglia di respirare ancora aria fresca. Stringendosi, per stare con gli altri, alla fedeltà a se stessi, in una scelta amletico-adolescenziale. L'album, meravigliosamente evocativa la foto di copertina ("Outlet, Bering Glacier, Alaska 1973") di Hiroshi Hamaya, s’incanala allora lungo sentieri luminosi tracciati sulla sabbia, sulle onde, sulla terra, sui pendii dal vento autunnale. Amando il vento, senza posa. Amandone le ire e le attese. Guardando in faccia i fati avversi, le insidie più taglienti di una vita spesso grama, rileggendo tutto attraverso melodie in tonalità maggiore e armonie serpeggianti e liriche. Come per chiederci, in un canto dalla forza cicatrizzante, perché tanta sofferenza sia generata dalla gente che ti rompe il cazzo in maniera gratuita. E comunque “tu” vai avanti. Anche nel “noi”, a volte fottuto, a volte no.

"In questi ultimi giorni / I truffatori hanno fissato il mio destino” . ("Maestranza");

"Oh, diavolo passa, oh, diavolo passa (non voglio morire mai, non voglio morire mai) / Sentendo una mano d'oro che si apre su di me (l’ora è sbagliata, ora sbagliata, ora sbagliata, ora sbagliata)". ("Quiet Air/Joy");

"Potrei vestirmi come Arthur Lee / Raschiare le mie scarpe nel modo giusto / Magari leggere l’Ulisse / Ma è un gioco da ragazzi / Potrei incupirmi ogni notte / Trovare qualcosa di unico da dire / Potrei passare per un erudito / Ma è un giochino da giovani". (“Young Man’s Game”);

“Ora vai da Victor sulla sua scala verso il cielo / Ed ero rimasto a cantarlo con te sulla mia porzione di riva / E hai cantato per i perduti che erano giovani e meritavano di più / E ora sto in piedi tutta la notte ad aspettarti entrare dalla porta”. (“Jara”);

“Oh amico, era molto meglio allora? / Siamo rimasti soli, eravamo orgogliosi del nostro dolore”. (“A Long Way Past The Past”)

"Nuoterò per una settimana nelle calde acque americane con cari amici / Nuoterò fino a salire in alto verso i prati dell’Eden" (“Sunblind”).

Ma l'aria è pulita / E ho sbagliato tutto / Ma ho fatto pace / … / Sono stato luminoso, sono stato sbiadito / Sono quasi a metà/ … / A malapena credo che in qualcosa ce l'abbiamo fatta. / …/ Ma alla fine sono la stessa cosa / La siccità e la pioggia per me” ("Cradling Mother, Cradling Woman", *canzone che contiene un sample di Brian Wilson che conta il tempo!).


Scritto, arrangiato, suonato (quasi tutto) e prodotto da Pecknold, “Shore” è un catalogo di venti imbruniti al sole obliquo d’inizio autunno (pure pubblicato il 22 settembre, equinozio d’autunno): "I'm Not My Season”, elusiva brezza di mare; “Sunblind”, vento caldo dell’est (litania che invoca vari musicisti morti troppo presto, tra cui Judee Sill, John Prine, Elliott Smith, Bill Withers, Nick Drake, Arthur Russell e Jeff Buckley, fonti di ispirazione dei Fleet Foxes); “Jara”, Chinook che soffia sulle vette (richiamo all’attivista cileno riferito al movimento Black Lives Matter); “Shore”, vento freddo che porta asciutto, cielo limpido e visibilità (il duetto finale di Pecknold con Meara O'Reilly). Un cantautore maturo, la band lo accompagna sostanzialmente dal vivo, che consolida la propria classicità e nella sua musica sembra molto più forte dei suoi disagi.


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