“Tusk” è un disco punk lo sapevate? Si, perché a detta di Mick Fleetwood, rinomato dinosauro del rock, nel 1978 Lindsey Buckingham si era completamente invaghito di quelle sonorità abrasive e stravedeva per i Clash (tu quoque!) e per il loro approccio così diretto e stradaiolo. In realtà Lindsey aveva un’orecchio particolarmente attento e sicuramente amava il rock classico a stelle strisce, le radici, il blues. Però era affascinato dai suoni molto wave dei Talking Heads, dei Devo e di Laurie Anderson. E voleva assolutamente seguire quella musica o meglio, quell’attitudine. Il problema vero erano gli altri componenti dei Mac, sdraiati sui bordi delle loro piscine a Beverly Hills a godere dei proventi fantasmagorici del million seller per eccellenza, “Rumours”. Ma Buckingham, oramai leader riconosciuto della band milionaria e vero artefice delle loro fortune, si curava poco degli altri sapendo che le sue scelte sarebbe state quelle orientative. Così, rinchiuso in bagno (si in bagno!) con mille idee e tutti i suoi arzigogoli, si mette a strimpellare su improbabili claviette e a percuotere scatole di kleenex alla ricerca di “quel” suono. I demos lo-fi che ne scaturiscono diventeranno l’ossatura di “Tusk” e se non è vero DIY questo, poco ci manca! In un paio di mesi comunque Lindsey registra parecchi nastri casalinghi in una sorta di estasi creativa. Poi chiama gli altri a raccolta e li reclude in quella prigione dorata dello Studio D di Los Angeles, per quasi un anno. Tra cuscini di velluto e arazzi alle pareti, champagne a fiumi e naturalmente cocaina come nevicasse in Trentino, prende forma il doppio album. Quello che si può chiamare "la creazione di processo creativo" aveva avuto la sua start up nella maniera più informale possibile.

Il disco che prende progressivamente forma è controverso, in parte spiazzante ed ambiguo. Da un lato Lindsey e la sua ricerca sonora “alla Brian Wilson”, dall’altro la produzione lussureggiante e su scala epica delle canzoni di Stevie Nicks e Christine McVie. In mezzo la casa discografica, con le palle in giostra per le faraoniche spese quotidiane di registrazione, comunque sempre fiduciosa nel singolo spatarra classifiche. Ostinatamente determinato a differenziare l'identità musicale di “Tusk” da quella di “Rumours”, l'avventurosità di Buckingham si rivela tuttavia lungimirante. Gli arrangiamenti a bassa fedeltà, i refrain frastagliati, le performance vocali quasi smunte, le percussioni ovattate ed i coretti da segreteria telefonica rendono ancora oggi il disco godibilissimo e quantomai attuale. Ed in questo mi sento di accostarlo, con assoluto e doveroso rispetto per la Bibbia del rock, al White Album dei Beatles.

Al di là di questo approccio un pò bizzarro, quello che, a mio parere, rende “Tusk” un grande disco sono le canzoni che lo compongono e l’ispirazione melodica di tutti i componenti, che si confermano in stato di grazia. Magnifiche sono innanzitutto le canzoni di Lindsey. “That’s all for everyone” armoniosa e suadente, “The Ledge” compatta e pestona, la vivace "I Know I'm Not Wrong”, la dolce “Walk a thin line” e l'esuberante "What Makes You Think You're One" che diventa jam session spericolata nelle esibizioni dal vivo. Poi c’è “Tusk”. La title track costituisce un capitolo a parte ed è l’incarnazione stessa dello spirito di tutto il disco così come lo aveva concepito Buckingham. Guidata dalle percussioni martellanti di Mick Fleetwood, giustapposte alla ripetitività del ritornello, si trasforma da mormorio sommesso a frenetico mantra spirituale, in un coro finale bellicoso. quasi gospel. È un pezzo lontanissimo da tutto quello che la band aveva inciso fino a quel momento, un miscuglio azzardato di ritmo ed esplosioni vocali, un singolo all’antitesi del radiofonico. E invece paradossalmente è un pezzo memorabile e la critica più ancora del pubblico lo riconosce subito. Insomma, se qualcuno dei membri del gruppo si stava divertendo con indulgenza durante la realizzazione di “Tusk”, quello era senza dubbio Lindsey Buckingham.

Nella pura composizione, libera dagli sperimentalismi del riccioluto chitarrista visionario, Christine Mc Vie non è da meno. Le sue canzoni sono sciolte, tranquille ed anche esplorative. La rilassata e melliflua "Over & Over ”, il groove arioso con doppiaggio vocale di "Brown Eyes”, impreziosito dal lavoro di chitarra non accreditato di Peter Green, la semplice e convincente ”Never Forget” e il poppeggiante terzo singolo "Think About Me" che ricorda vagamente “You make loving fun”. Esercizi di stile e di equilibrio melodico, ottimo materiale.

Ho lasciato per ultime le composizioni di Stevie Nicks, sicuramente non perché siano in secondo piano nell’economia dell’album, anzi. Di “Sara” si è già detto e scritto tutto, è una ballata che non dovrebbe finire mai, emotivamente devastante nella sua bellezza. E come rimanere impassibili di fronte all’enigmatica magia di “Sisters of the Moon” e del suo crescendo che ricorda in parte “Rhiannon”. Stevie è nel pieno della sua maturità compositiva, molto istintiva ed emozionale. Evidentemente le clamorose sniffate quotidiane, che presto la costringeranno a rifarsi le canne nasali, non compromettono affatto il suo talento cristallino di compositrice ed interprete. E le sue ballate restano memorabili. Come la commovente "Storms", cupa e solinga, che vede la sua voce perdersi, spezzarsi e ricomporsi. O come la tenerissima “Beautiful Child” o anche il vivace e accattivante rock blues di “Angel”, il vero singolo “mancato del disco”.

Al di là delle provocazioni iniziali, sarebbe oggettivamente difficile chiamare tutte queste canzoni “punk” di per sé. In verità traboccano del background folk & blues di Buckingham, e dopo tutto sono state registrate con un budget con il quale, a quesi tempi, si poteva quasi pianificare un viaggio su Marte Ma del punk conservano l’affinità, la semplicità e la concisione. Per molti versi suonano esattamente come sono: punk rock riflesso attraverso lo specchio di una band miliardaria.

“Tusk” fu accolto con una certa freddezza e realizzò vendite per “soli” quattro milioni di copie, una quantità impressionante per gli standard odierni, ma ben al di sotto del bottino di “Rumours”. I dirigenti della Warner Bros. e gli esperti del settore lo considerarano una mezza delusione ma il disco dimostrò che i Fleetwood Mac non si erano fermati al 1976 e, per il momento, non avrebbero scimmiottato se stessi. Il tour planetario che seguì “Tusk”, al netto delle beghe sentimentali, delle cornazza tra i componenti della band e delle quotidiane crisi di astinenza da bamba, fu probabilmente il migliore di sempre. I pezzi, dal vivo acquistarono maggior vigore e divennero subito dei classici. Così il disco è cresciuto notevolmente nel corso del tempo, fino ad essere riconosciuto da molti come il vero “masterpiece” dei Fleetwood Mac. Io lo considero tale, un album fuori dal tempo, dove la propensione all'eccesso creativo di Buckingham nel concepire e realizzare il suo “Smile”, finiscono per sublimare la cifra stilistica e musicale della band, senza nulla togliere alla magia di quel suono creato appena qualche anno prima. Per quanto mi riguarda, “Tusk” rimane un ascolto coinvolgente e affascinante anche oggi, imperativo per una comprensione e un apprezzamento della storia musicale della band e di tutto il rock californiano degli anni settanta. Amare i Fleetwood Mac è anche questo, meravigliarsi ancora, dopo 40 anni, della assurda e fantastica alchimia che queste cinque persone sono riuscite a creare nel lontano 1979.

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