Il maestro Zhuang sognò d'essere una farfalla, od ella sognò forse d'essere il maestro Zhuang?

Inizia così: con un volo ed un lamento trascinante; con una fuga sconfinata ed un tempo scandito a mo' di monito.

Un lieve e greve mai pago galleggiamento, tra il dentro e l'altrove.

Anzi, a ribaltare il dentro e il fuori; come la farfalla e il saggio cinese.

E s'appoggia lievemente sul niente, per mirare più in alto, in voli ed altri voli.

Di più, sempre di più.

Poi una quiete, una nenia familiare, un sacro carezzare di madre.

Pellegrinaggio d'una voce in terra senza nomi, da terra di Brasile edotta e fiorita, in terra di levità approdata.

Poggia, per poco, di momentanea requie che non è ancora e già non è.

Dalla Bossa Nova, la giovane Flora degli anni Sessanta, allo scosso rimestato frullato decennio successivo mai più a requie ha anelato, ma a ritmi concitati e alti voli.

Una fusione di suoni che è fusione d'orizzonti e ritorno a casa, dove la casa, rinata da un tenue germoglio, è ora un arbusto di mille colori.

Certo, un salto non da poco: un salto che è un volo tra fonde vallate e svettanti vette, a ritrovare sé stessi in cosa?

In una casa di vento, in un apolide movimento.

E che volo sia allora, Flora.

Che volo sia.

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