Quando sento l’urgenza di spararmi un po’ di hard rock sanguigno, primario, basico, quello figlio ancora primogenito del rock’n’roll inventato dai neri e potenziato dai bianchi ma senza ancora alcuna aggiunta, orpello, deviazione se non gli amplificatori ben più grossi e le chitarre assai più lancinanti, allora il secondo nome che mi viene da considerare sono i Foghat.

Grintosi e schietti come nessun altra band, trasudano passione e sincerità ad ogni passaggio, benedetti da un tiro assassino di basso e batteria e da una chitarra solista, specie slide, assatanata. La voce è un tanto al chilo esteticamente ma la sua convinzione, l’amore e il trasporto sono palpabili, anzi incontenibili, generando un’empatia rock senza limiti e quindi viva lui, il povero Dave Peverett che ci manca già da un quarto di secolo.

Quasi nessuno se li fila in questo intero continente anche perché, loro inglesi, dovettero andarsene da subito negli USA dato che in Gran Bretagna stavano subendo un ostracismo da parte del giro malefico di discografici ed impresari, per aver litigato con il boss del gruppo londinese dove militavano, i Savoy Brown. Buon per loro, l’America li ha accolti e giustamente apprezzati, male per l’Europa che li ha ignorati, figurarsi l’Italia. Per mia fortuna uno dei loro album albergava negli scaffali di una radio libera dove collaboravo da ragazzo e così li ho scoperti in tempo utile per godermeli anche da giovani, sia loro che me stesso.

In questo disco, il loro settimo di carriera (1978) i momenti da segnare col circoletto rosso sono innanzitutto l’estesa, lirica “Midnight Madness”, una faccenda di quasi sette minuti all’inizio cadenzata da un ipnotico, incalzante arpeggio di acustica, il quale ogni tanto soccombe al frastuono delle elettriche, riesce a tratti a riemergere ma infine affoga definitivamente nel vortice degli assoli incrociati.

Sempre da circoletto rosso la paurosa prestazione di baffone Price nella canzone eponima dell’album, un’esibizione di vibrato slide devastante, da lasciare in mutande… guardare su YouTube prego. Altro che Duane, viene giù il palco quando verso il finale Rod si mette a grattare le corde fin sopra i pick-up, facendo abbaiare i superacuti della chitarra come un animale spaziale. Rod Price il definitivo massacratore slide esistito a ‘sto mondo, e lo conoscono quattro gatti da queste parti. Il cuore l’ha tradito vent’anni fa ma perché ne aveva tanto, troppo. “The bottle” lo chiamano i fans, per quella bottiglietta trasparente di Coricidin infilata nel dito medio, su e giù per la tastiera a fare mirabilie.

Non sto a segnalare altro, quella verso i Foghat dev’essere un’immersione totale, non un saltellare a spot fra un pezzo e l’altro. Ah già… il primo nome che mi viene in mente per la mia ciclica dose di rock’n’roll iper amplificato e integro, l’unico prima dei Foghat, è quello dei soliti impareggiabili Ac-Dc, ancora e sempre il distillato perfetto del rock’n’roll bianco senza altre intenzioni, sbocchi, sviluppi, ampliamenti, infiltrazioni, sfumature.

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