È il 1974. In Italia, come in tutto il mondo, si è nel pieno degli anni 70 ed è superfluo dire qui, adesso, cosa questi anni hanno significato, per la storia dell'umanità. In questa fetta di Novecento, arrivavano dall'America e dall'Inghilterra, principalmente, dischi e gruppi che entreranno a far parte degli annali della musica. Bob Dylan suonava le sue canzoni pacifiste e Leonard Cohen si concentrava più sulla descrizione dell'Io, della crisi mistica e delle sue visioni.

In Italia, sulla loro scia, abbiamo principalmente due artisti: Fabrizio De André e Francesco De Gregori. Ed è proprio quest'ultimo che mi accingo a recensire, con un disco omonimo, che riporta semplicemente nome e cognome: "Francesco De Gregori". Questo disco, in quegli anni, arriva come un pugno nelle orecchie, come una piccola sfumatura di rosso nel buio di una stanza chiusa, come la voce di chi ha perso la sicurezza e riversa la propria disperazione nella chitarra acustica. Perché è proprio di questo che si tratta: un disco in cui è presente principalmente la chitarra, oltre alla voce di un ventitreenne che ha come miti proprio due degli artisti sopracitati. Ed è proprio simile a questi artisti, lo stile espresso nel disco. Rari echi di pianoforte che arrivano da lontano, batteria totalmente assente, un uomo che canta come nella sua stanza quando non c'è nessuno a casa. Una chitarra acustica e una voce.
A fare da contorno a tutto questo, ci sono i testi, che secondo me fanno parte delle migliori creazioni dell''artista; metafore onnipresenti, visioni che ti si presentano davanti come un cane che si è perso, sogni, dolore e speranza che provengono dall'Io di chi scrive, in un'età in cui si hanno mille domande e pochissime risposte. Ci troviamo di fronte all'uomo, all'artista, al suo essere.
Nella biografia dell'autore, questo disco viene considerato da lui stesso il peggiore che abbia mai fatto. Ma il destino vuole che questo album venga considerato il migliore dai veri fan, da chi conosce la sua musica e ci si ritrova dentro, che non lo conosce solamente per qualche canzone che gli suscita un bel ricordo.

Passiamo alle canzoni.:
si inizia con "Niente da capire", probabilmente la canzone più conosciuta a livello commerciale, di questo cd. È un attacco diretto a tutti quelli che consideravano la sua scrittura ermetica, incomprensibile; attraverso questo testo ci fa capire che nelle sue canzoni non c'è niente da capire, ognuno le può interpretare come vuole, secondo le proprie necessità.
La successiva è "Cercando un altro Egitto", che è - insieme alla sopracitata - l'unica che il cantautore romano propone ancora ai suoi concerti. Vi è una frase, "le grandi gelaterie di lampone che fumano lente", che è riferita ai campi di concentramento. Lui immagina di essere come San Giuseppe, ovvero di scappare e portare con se solo le cose migliori della vita.
Troviamo "Dolce amore del Bahia"; c'è una formica che l'autore incontra, che all'inizio lo cataloga come pazzo e che lui, successivamente, ucciderà, perché "io sono stato dove tu mai".
Successivamente, abbiamo "Informazioni di Vincent", dove vengono messe in mostra le debolezze di chi scrive, chi ha "affittato i suoi occhi a una banda di ladri e vede quel che vedono loro", chi è ancora aspettato a Parigi, in una stanza con la moquette piena di topi.

"Giorno di pioggia". Una chitarra trascinata via insieme al malessere di chi canta, di chi solitamente va a "vedere gli incidenti stradali lungo il fiume", di chi cammina in un giorno di pioggia desiderando le chiavi di chi ama per poter "scrivere una lunga poesia per le tue braccia".
Arriviamo poi a "Bene", una canzone che De Gregori ha cantato una volta dal vivo e poi non ha mai più riproposto in un concerto. Una canzone che descrive il rapporto con sua madre, a cui lui ricorda che "giocavo coi tuoi occhi nella stanza e ti chiamavo mia", a cui permette di poter criticare le proprie poesie e di poterlo chiamare ancora "amore mio", anche se "le navi di Pierino erano carta di giornale eppure sono andate via".
Troviamo, poi, "Chissà dove sei". Chissà dove sarà andata a finire, lei, con "il tuo trucco infame e la tua giacca da bandito". Lei è andata via, ma lui l'aspetta ancora e le dà le coordinate per trovarlo: "via del sopracciglio destro".
C'è poi "Arlecchino" dove, tra "fiori falsi e sogni veri" Arlecchino cammina sul filo, anche se "il filo sotto i piedi non ce l'ha" e tutti sono andati lì a vederlo. Una situazione simile a quella dell'artista, che è appesa a un filo, un filo che può essere tagliato se qualcuno decidera che sarà più resistente abbastanza, quando "la mia cella è un po' più stretta e mi pagano di più".
"A Lupo" è una canzone che si presenta come una favola, con qualcuno che non ho niente da chiedere, se non le tue lacrime e tutto quel che hai, dove la piccola fiammiferaia presa dal gioco si è rotta una mano sopra il filo spinato. Ma viene pregato, questo Lupo, di non giurare più sulla sua bambina. E questa è una storia vera: la storia di un produttore musicale che, quando doveva giurare, giurava sempre su sua figlia.

Si prosegue fino ad arrivare a "Finestre di dolore", a mio parere la migliore, all'interno dell'album. Vengono tre scritte tre situazioni: l'alba in cui un gallo si mette a suonare la sveglia "per quanto la notte non sia ancora ubriaca" e dove "lui, con la mano alla bottiglia faceva i suoi discorsi da pazzo"; si passa poi a dei giovani rinchiusi in una stanza ad aspettare l'alba, "aggrappati alle nostre sigarette", dove Anna conta i ricordi sul soffitto; poi ci sono gli uomini diversi, che aspettano "in una buca di due metri", aspettano un attacco, che "era fissato per le sette", quasi a simulare uno scontro fra ragazzi, che in realtà non presentano alcuna differenza, proprio come le guerre, che spesso sono combattute dimenticando che siamo tutti uguali. E poi ci fu un momento in cui "venne da molto lontano un ricordo, qualcosa di simile a un pianto di madri e due angeli vestiti di bianco scesero con aria stupita e il vuoto nel cuore".
In conclusione, arriva "Souvenir", un piccolo assaggio (la canzone dura poco più che un minuto) in cui l'artista, nonostante il fatto che non ci sia "niente luna questa sera" e "niente gatti sopra il tetto", con la lingua conta i propri denti, perché non gli ritornano i conti. Gliene manca uno, si chiede dove sia andato a finire, e chiede a lei se "per caso non l'hai mica ritrovato a casa tua" perché era "così distratto, amore mio, quando ti ho morso il cuore". Si arriva alla conclusione quindi con un amore ritrovato, un cuore che viene morso da colui che ama, che perde persino un suo dente e non gli interessa: preferisce lasciarlo da lei.

È il 1974, dicevamo, e forse in Italia non si era ancora mai sentito niente di simile, non si era mai sentito un prodotto così vicino allo stile dei vari Dylan, Cohen, Drake. Neanche il grande Fabrizio De André forse avrebbe mai fatto qualcosa del genere. Ci ritroviamo di fronte a un cd più unico che raro, un piccolo diamante in mezzo a una distesa di sassi grigio morto. E, a mio parere, è un diamante che vale la pena raccogliere.

Voto: 10/10

Tracce:

1. Niente da capire
2. Cercando un altro Egitto
3, Dolce amore del Bahia
4. Informazioni di Vincent
5. Giorno di pioggia
6. Bene
7. Chissà dove sei
8. A lupo
9. Arlecchino
10. Finestre di dolore
11. Souvenir

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