Anno 1974. Francesco è un giovane e promettente cantautore romano dalla barba rossa, con un un principio di tristezza in fondo all’anima, come dirà qualche anno dopo, ed ha l’attivo due dischi: il primo con l’amico di sempre Antonello, nel quale giocava ancora con i seni piccoli ed il cuore muto della sua Signora Aquilone; il secondo, molto più maturo ed impostato, perso per sempre dietro le allucinazioni di Alice, Irene alla finestra, con il mondo che passava accanto a lei senza sfiorarla, o magari Marianna che camminava con il Sole nei capelli aggrappata ad un paradiso di stagnola.

Ma ora Francesco ha 23 anni, si è stancato di seguire gli aquiloni.

“Bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia; sono tuoi.

Ma è inutile cercarmi sotto il tavolo, che ormai non ci sto più.”

Premessa. Il proseguo della narrazione potrebbe già arrestarsi qui.

“Bene” è da sempre stata una parte di me. Dalla prima volta che l’ho ascoltata, forse addirittura prima che nascessi.

Ma non voglio focalizzarmi su un singolo brano, ma più che altro parlare dell’opera (e, quindi, di me) nella sua totale organicità.

Si, perché la vena dell’album è particolare, sentita, sospesa come uno straccio messo ad asciugare fuori alla finestra.

La commistione tra la dolcezza dei giri di parole, di un surreale principio di intossicazione nascosto dietro dolci amori del Bahia dimenticati su una spiaggia, resta e resterà sempre l’aspetto peculiare che caratterizza tale disco, e che già da Rimmel andrà perduta.

“Se tu fossi di ghiaccio, ed io fossi di neve

che freddo amore mio, pensaci bene a far l’amore.”

Sono riflessioni giovanili, pezzi di memoria, schizzi fotografici.

Da sempre ho cercato di imitare la poeticità di certe frasi, componendo le mie scialbissime prime canzoni, ma senza alcun risultato.

Sono soltanto riuscito a riempire pagine e pagine di diari al Liceo.

“E’ troppo tempo, amore

che noi giochiamo a scacchi

mi dicono che stai vincendo

e ridono da matti.”

Francesco ci porta in un mondo tutto suo, fatto di sogni, speranze, amori e poesia.

Gli arrangiamenti sono scarni, chitarre e voce, come se le canzoni brillassero di una propria patina “intima”, senza sovrapposizioni, senza fronzoli. Solo tante parole.

“Tu conosci mica qualcuno

che è disposto a chiamarmi fratello

senza avermi letto la mano.

Amore mio, voltati dall’altra parte.”

Le suggestioni sono molteplici. C’è Cohen, che il Principe adorava a dismisura, ma soprattutto c’è Fabrizio De André. Quel De André che si innamorerà a tal punto di questo disco da chiamarlo per il suo Volume 8 l’anno seguente, componendo altri pezzi di cuore come “Oceano”, “La Cattiva Strada”, “Dolce Luna”, e rubandogli “Le Storie di ieri”, che qui sarà scartata e ripresa per Rimmel.

“Dammi le tue chiavi, dolce

voglio farne una copia

voglio scrivere una lunga poesia

per le tue braccia.”

Il percorso seguito è circolare. Tutto nasce dal sogno, dall’inconscio, dalla reminscenza.

“Amore, naviga via

devo ancora svegliarmi.”

E se è vero che non c’è da capire, e non c’è nessun motivo di essere nervosi, Francesco lancia tutto in aria e scappa via. Il desiderio di ribellione anima profondamente il filo conduttore del disco. I quadretti sono abbozzati ed annacquati, fluidi e lineari.

“Domani, che farò ragazza mia

dei tuoi pensieri magri.”

Ma tutto parte da lì. Dall’amore. Francesco è timido, timidissimo, dissimula le sue emozioni dietro ossimori poco chiari.

Nonostante tutto, lascia un Souvenir in riva al mare.

“E intanto conto i denti, però il conto non mi torna

Ce n’è uno che mi manca, e forse tu mi puoi aiutare.

Per caso non l’hai mica ritrovato a casa tua?

Ero così distratto amore mio, quando ti ho morso il cuore.”

Il proseguo della narrazione potrebbe già essere finito.

“Nemmeno l’innocenza nei miei occhi

ce n’è già meno di ieri, ma che male c’è?”

Francesco lascia un ultimo messaggio, chiudendo per sempre un periodo intenso della sua vita. E’ tempo di crescere.

Non vedi che ormai il mio sguardo è più maturo? Non c’è più innocenza nel mio sguardo. Le risate a scuola, i libri nascosti sotto i banchi, i primi amori, sono acqua passata. Eppure non c’è male nel tempo che passa, perché, vedi, sono sempre io (“tu non credere se qualcuno ti dirà che non sono più lo stesso ormai” si dirà anni ed anni dopo).

Francesco chiude con un messaggio sospeso.

Una frase che nel tempo non viene scalfitta affatto dalle incursioni tempestose del tempo. Una frase dal valore universale.

“E puoi chiamarmi ancora amore mio”

Si ritorna a “Bene”. Si, avevo promesso di non parlarne.

Ma, vedete, è difficile tenere fermi gli slanci dell’anima.

Ascolto questo brano da quando ero poco più che un bambino, ma solo ora, a vent’anni, ne colgo il vero significato.

Francesco, come tanti, siamo un po’ tutti.

Francesco, forse, sono io che parlo di me allo specchio.

In fondo, si sa, a vent’anni ci si innamora di tutto.

Ma questa è un’altra storia.

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