Si fa veicolo d’un viaggio vero e proprio "Caffè de la Paix", un volo immaginario ma vivido e suggestivo in luoghi mitologici, lungo reminescenze storiche, in giardini trascendentali al di là di tempo e spazio. Al termine dell’ascolto di tutte le otto tracce mi rendo conto aver posato lo sguardo in un caleidoscopio composto perloppiù da sonorità orientali, aver sorvolato paesaggi che fondono realtà e fantasia.

Gli archi a iniziare. Creano una breve sonorità, quasi proveniente dalla sala musicale d’una villa palladiana... ma sono dieci  fugaci secondi, gli strumenti  irrompono gioiosi esattamente come se una variopinta corte di musici si riversasse nella citata sala - non stonerebbero rumori di porte a vetri, affacciate sul parco, che vengono divelte -. Invitano alla danza immediata, irresistibile quanto l’esortazione del testo (cantato con voce che mi arriva serena e calma, in antitesi, quasi, con il ritmo vivacemente cadenzato) a “prendere un tè al Caffè de la Paix... su vieni... con me”.

E ascolto deliziato "Fogh in Nakhal", devo dire soprattutto per la padronanza della lingua, e davvero ripenso alle affermazioni di Battiato su quanto breve e profiquo sia stato il suo apprendimento delle lingue orientali (di contro, a mio modo di vedere, i risultati, almeno per il dialetto partenopeo, sono opposti...).

“Atlantide” è stupenda. Testo e musica. Trovo difficile descrivere il piacere che sempre mi lasci questo pezzo. Dovrei citarne ogni frase. Queste possiedono il fascino che, personalmente, potrebbe derivarmi dal leggere delle iscrizioni su una roccia sommersa rivelasi tra rovine appena visibili su fondali oceanici. Magari pecco di eccessiva enfasi ma davvero sembra la descrizione, sepolta dalle acque, della vita, dell’ascesa, della gloria e della rovina della mitica civiltà di Atlantide.

Un’autentica poesia che, in quattro minuti, affatto condensa una storia affascinante ma ne lascia intravedere le mille ipotesi, le implicazioni, i significati filosofici sulla condizione umana d’ogni tempo. Difficile le suggestioni non lascino il segno. Anche per il tono della voce ispirata, proprio perchè, calma e contemplativa, appare come di un cantore che assume il ruolo, nel suo narrare ad arte, del testimone oculare.

“In un giorno e una notte la distruzione avvenne, tornò nell’acqua, sparì Atlantide”.

Come improvvisa è la mitologica nascita dell’isola (“apparve Atlantide, immenso”, dopo la suddivisione dei reami da parte degli dei) così tutto termina prendendoti quasi alla sprovvista, quando ti aspetteresti ancora immagini di quel mondo fantastico, “in alto un tempio, sei cavalli alati, le statue d’oro, d’avorio e oricalco”...

La calma che impone la seguente, bellissima, "I Giardini della Preesistenza" è la triste constatazione di uno stato di beatitudine da cui deriviamo e che abbiamo perso. Mi piace legarla alla precedente, pensarla come la nomalità (seppur “privilegiata”) che si viveva tra le balze dell’isola di Atlantide (che, almeno nelle mie letture, più o meno fantasiose – ma che importanza ha? – viene descritta con un’altissima montagna sulle cui pendici si affacciano giardini e abitazioni). E’ malinconica e, ancora, la voce mi delizia.

"Delenda Carthago" è un capolavoro che rilassa e trasporta nella contemplazione di ranghi legionari, triclini su cui pasteggiano togati patrizi, urla e frastuono delle turbe stravolte ammassate nelle arene... Roma antica di cui appare il vissuto remoto in ogni suo aspetto, il lusso che diverrà mollezza, la potenza militare che sfida e vince i suoi primi avversari veramente temibili, per poi disperdersi in remoti confini fattisi più ampi e meno difendibili, i riti di sangue per saziare i soli cittadini degni di tal nome che verranno sopraffatti dai barbari che spregiavano. Il ritmo è lento (quasi la marcia dei soldati tra le alte dune verso Cartagine) gli strumenti a fiato ricordano la tranquillità d’ombra dei giardini lussuosi o anche le affollate taverne e i sanguinosi sollazzi del circo.

"Ricerca sul Terzo" riporta alla contemplazione, non di un luogo di pace, stavolta, bensì di sè stessi, quasi la descrizione di un viandante (noi che ascoltiamo?) che si ferma a lato della via, un po’ discosto, e lascia che la propria mente si ponga alla pari del corpo sempre attivo e del cuore pulsante, senza più dettar loro intenzioni, soggiogarne i movimenti. Anch’essa trae benefici al pari loro, fino a essere in grado di giungere alla conoscenza del terzo, della conoscenza dia qualcosa di cui non conosciamo la presenza seppur vicina e percepibile.

Basta anche solo essere consapevoli di queste potenzialità per ricavare un piccolo insegnamento.

"Lode all’inviolato" sono il violino portante e il piano che continuano, poi, accompagnati da chitarra e batteria sostenute. E’ dal vivo che acquista lo status di mezzo capolavoro, a mio modo di vedere.

E infine "Haiku", piccola perla che ammutolisce, minimale la melodia, ancora ci si ferma a meditare per raggiungere qualcosa, quel luogo di pace universale che il bellissimo testo persiano lascia intravedere e sospirare.

Con "Caffè de la Paix" Franco Battiato ha fuso in un mosaico di suoni, luoghi del passato, luoghi immaginari e luoghi di delizie di là da venire

Luoghi che possiamo “vedere” ascoltanto delle semplici, brevi canzoni.

Sorprendente. Rassicurante. Bello.
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