"Caffè de la Paix", datato 1993, rappresenta una delle opere più intime ed introspettive nella discografia di Battiato, e a parer mio uno dei suoi lavori migliori.

Questo disco a me sembra tanto un viaggio, in cui l’artista prende per mano l’ascoltatore e lo guida dolcemente ma con sicurezza, forte della certezza che la vera pace si trovi solo nella continua e indispensabile ricerca di sé stessi, e nell'inevitabile ma serena accettazione che tale indagine porta all’inconoscibilità del mistero che ognuno di noi è nel profondo. Ricerca che è, nella filosofia di Battiato, un percorso a ritroso, un ritorno alle origini, a quell’età dell’oro in cui l’uomo viveva su un piano più alto, libero dalle catene delle passioni e dalla corruzione della materialità, nel mondo descritto nel brano “Sui Giardini della Preesistenza”; percorso che non può prescindere, peraltro, dalla rovina, dalla perdita di quel mondo, a causa della (dis)umana brama di potere, lusso e ricchezza (“Delenda Carthago”), dal suo implodere come nella paradigmatica fine del regno sommerso, in “Atlantide”. Ritorno all’indietro nel tempo che altro non è, in realtà, che viaggio in noi stessi, nelle nostre vite precedenti. E difatti la ciclicità delle vite terrene, la trasmigrazione dell’anima, il tentativo di ricostruire un proprio percorso karmico, sono tutte tematiche care all’autore, che si ritrovano, oltre che nel brano che dà il titolo a questo disco, anche, ad esempio, nelle future “Vite Parallele” e nella stupenda “Il Mantello e la Spiga” (entrambe da "Gommalacca").

Viaggio nel tempo, dunque, ma anche viaggio nello spazio, spazio metafisico, in quella Mesopotamia già cantata dal nostro che fu la culla dell’umanità, e che risplende dei suoi preziosi colori e sapori e odori nella canzone irachena “Fogh in Nakhal” e nel finale persiano di “Haiku”.

All inclusive: il tour operator Franco(Rosso)Battiato ci fornisce anche il mezzo di trasporto per affrontare questo viaggio spirituale: la meditazione (meditate gente, meditate!), strumento privilegiato di liberazione dai quotidiani affanni, per arrivare alla scoperta di ciò che finalmente conta davvero, l’essenza, attraverso il distacco dalle proprie sensazioni ed emozioni (il silenzio mentale buddista, verrebbe da dire: “…la mia mente, che spesso ai suoi pensieri mi incatena” , canta in “Ricerca sul Terzo”, e “vorrei sospendermi nel nulla, ridurmi e diventare nulla”, nella già citata “Haiku”).

La musica accompagna magistralmente questo percorso: il disco è intriso di sonorità mediorientali (ancora la valle tra i due fiumi), grazie all’uso di strumenti etnici; la musica è alta e soave nel ricordo del mondo mitico, in “Sui Giardini della Preesistenza”; solenne e drammatica nel descriverne la fine, in “Atlantide” e “Delenda Carthago”; ripetitiva e ipnotica in "Ricerca sul Terzo” e “Haiku”. Una menzione a parte merita “Lode all’ Inviolato”, la canzone più bella dell’album e una delle mie preferite in assoluto di Battiato. In questo brano c’è l’ essenza dell’intero disco: la certezza in una Presenza ultraterrena, comunque La si voglia chiamare (e Custode mi piace assai), non distante né indifferente; gli infingimenti, le false immagini di sé dietro cui ci nascondiamo, agli altri ma prima di tutto a noi stessi; le incertezze e le cadute; la gioia dell’ essere coscienti di sé, e coscienti della propria coscienza; l’inviolabilità che ne discende, quella che ti fa credere che, per quanto scure e cariche di pioggia, “le nuvole non possono annientare il sole”.

Insomma, uno dei lavori di Battiato che preferisco, pur così lontano, o forse proprio perché così lontano da me, miscredente, tribolato e, ahimè, violabilissimo.

P.S. : so che è già presente una derecensione di questo album. Mi scuso quindi, in primis con l’Autore, del doppione. Posso solo dire che ho cercato, dando la mia personale interpretazione, di fare in modo che lo fosse il meno possibile (un doppione).

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