Nell'epoca ante-internet, se non leggevi riviste specializzate, le notizie sui dischi in uscita arrivavano all'ultimo momento, le trovavi sulla rivista per famiglie o al limite su qualche quotidiano. Capitava così che nel 1991 sfogliavi Sorrisi e Canzoni e venivi a sapere che le uscite dell'autunno c'era un nuovo disco di Battiato (ah però!) intitolato "Come un cammello in una grondaia". E già dal titolo ti chiedevi quale sorpresa, quale bizzarria ti avrebbe riservato Battiato stavolta... Diobòno ma non era la cruna dell'ago, cosa c'entra la grondaia?

La grondaia naturalmente c'entrava eccome, c'entrava un mistico persiano, credo medievale e c'entrava l'attinenza con un disco che era una sfida. Secondo album del trittico "mistico" di Franco Battiato (il primo è "Fisiognomica", il terzo e ultimo "Caffè de la paix" - ai quali vanno aggiunte le opere "classiche" dello stesso periodo, "Genesi", "Gilgamesh" e "Messa Arcaica") il "Cammello" infatti sposta e alza ulteriormente il tiro. Per prima cosa se ne va la strumentazione pop, via basso chitarra e batteria, gli arrangiamenti si affidano in toto all'orchestra classica, sotto la direzione del Maestro Giusto Pio, arricchita solo da discreti suoni di sintetizzatore. Seconda mossa, a quattro canzoni nuove si affiancano quattro lieder ottocenteschi, reinterpretati vocalmente da Battiato con grazia e semplicità e di conseguenza del tutto spogliati dalla usata solennità del bel canto lirico, col risultato di attualizzarli, oltre che umanizzarli, non poco.

Obiettivo più o meno manifesto dell'operazione era evidentemente fare vedere come certe barriere, certe distinzioni fra generi musicali siano spesso forzose e artificiali. E il risultato è sorprendentemente bello. I quattro lieder classici, di Wagner, Martin, Brahms e Beethoven, non tutti ugualmente facili all'ascolto a dire il vero, si armonizzano senza alcuno stridore con le quattro composizioni originali, che dal canto loro sono altrettanti pezzi di valore assoluto. "Povera Patria" è una delle canzoni italiane più belle di sempre e non ha certo bisogno di presentazioni, essendo diventata immediatamente un classico del repertorio del cantautore. Una delle pochissime canzoni in qualche modo politiche di Battiato, è un atto di accusa dolente e accorato, di grandissima forza emotiva e poetica. La title-track è un volo vero e proprio di archi (ascoltatela) sopra una meditazione sul disagio di stare in un mondo cui l'autore sente di non appartenere fino in fondo. "Le sacre sinfonie del tempo" è una melodiosa riflessione sulle sfere celesti e sulla condizione umana, forse il pezzo testualmente più pesante del disco, ma è con "L'ombra della luce" che tutta la produzione cosiddetta mistica di Battiato raggiunge il suo apice. Si tratta infatti di una vera e propria preghiera universale, adagiata su un tappeto musicale di rara bellezza, cui troppe parole non possono rendere la giustizia che solo l'ascolto può garantire. Il tutto cantato da un Battiato in grandissima forma interpretativa, che riesce a infondere sentimento e calore umano ai testi in maniera davvero convincente.

Il disco, registrato agli storici studi Abbey Road, per la cronaca vinse la sua sfida oltre che artisticamente anche commercialmente, vendendo in una maniera che la casa discografica (nella sua stolida logica da major miope) non avrebbe mai sospettato. Noi, dal canto nostro, non sospettavamo che Franco Battiato avrebbe potuto stupirci ancora di più di così, e soprattutto questo disco ci fece pensare che forse i tempi di "Cuccurucucu" e "Bandiera Bianca, nostro malgrado erano davvero passati per sempre, ma eravamo destinati a essere spiazzati molte altre volte, e definitivamente smentiti da un'imboscata di qualche anno più tardi. Con nostra confessata soddisfazione.

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