Dopo la parentesi "cazzara" jovanottiana, ritorniamo seri. Con un disco nobile, austero.
Battiato, dopo l'uscita di "Fisiognomica" (1988), abbandona, dopo 23 anni, Milano, città che lo aveva accolto e che lo aveva reso famoso: qui incide la sua opera "omnia" più conosciuta, dal "Cinghiale Bianco" a "La voce del padrone", da "Mondi lontanissimi" a, come detto sopra, "Fisiognomica". Torno in Sicilia, sua patria. E cambia anche le proprie coordinate musicali; dopo un decennio a spasso tra il pop e il cantautorale più estremo, eccole prendere in mano quelle passioni, musicali e filosofiche, a lungo sopite. Da qui in poi Battiato ci abituerà a questo: un alternare, forse un po' incoerente, di album "alti" e cervellotici, ad altri più accessibili e nazionalpopolari (vedasi "L'imboscata", 1996, che lo riporterà in (alta) classifica dopo anni di oblìo).
Primo esempio di questo nuovo Battiato è, appunto, "Come un cammello in una grondaia", uscito nell'autunno del 1991. Il titolo fa riferimento ad un concetto espresso da uno scienziato persiano, tale Al-Biruni, che nel XI secolo così si esprimeva per indicare l'inadeguatezza della propria lingua nel descrivere argomenti di tema scientifico. E già è un bell'inizio. Il lavoro, nonostante il ritorno in terra sicula del nostro, si svolge tra Castelfranco Veneto (dove risiedeva il mitico collaboratore battiatiano Giusto Pio) e Londra. Incredibile ma vero, nonostante l'intellettualismo filosofico dei testi ancora lontana è la figura di Manlio Sgalambro, attiva a fianco del cantautore siciliano solo dal 1995.
Confesso che il disco qui recensito non l'ascoltavo da molti anni, e mi ricordavo solo la celeberrima "Povera Patria". Riascoltandolo mi ha deluso: dura 32 minuti ma sembrano il triplo, è di una pesantezza luciferina. Nel senso che il nostro, perfidamente, sfida l'ascoltatore con un lato A molto colto e cantautorale, e un lato B composto solo da lieder di Wagner, Martin, Beethoven e Brahms. Ecco, appunto. Musicalmente l'album ha un difetto evidentissimo: tutte le canzoni si assomigliano, così uguali e "piatte" (musicalmente, dicevo) tra di loro. E' come se il nostro avesse voluto cancellare la prorpia impronta pop made anni '80 e avesse voluto aprire il nuovo decennio partendo da zero, un po' com'era capitato alla fine degli anni '70. Solo che stavolta non c'è il cinghiale bianco, ma un cammello impiantato, grottescamente, in una grondaia.
Delle prime 4 composizioni del lato A, tolta "Povera patria" (che è molto bella, ma molto, sotto sotto, fumosa: è un ritratto spietato dell'Italia che poteva andar bene nel 1991, così come nel 1971, così come ora), a risaltare è "L'ombra della luce", robustissima preghiera laica che Battiato scrisse dopo, pare, sei mesi di meditazione e ascetismo. Le emozioni, anche le più sincere, mette in guardia Battiato, sono una emanazione di una luce a cui, sempre, si sovrappone una lunga ombra che copre tutto, anche il sentimento più puro. La Luce è un concetto filosofico spesso al centro di tutto nelle religione orientali.
Da Wikipedia: "Battiato, noto per la sua curiosità verso il misticismo, la filosofia orientale e la spiritualità, integra in questa canzone una visione che trascende la mera esperienza terrena, alludendo a un ideale di trascendenza".
Un brano stupendo, fosse stato infilato in "Fisiognomica", vicino a "L'oceano di silenzio", sarebbe stato un capolavoro. Così come anche "Le sacre sinfonie del tempo", e le sue innumerevoli vite terrene, esperienze che non nascono e non muoiono con la vita mortale dell'uomo bensì proseguono oltre, o anche prima. Un po' meno interessante la title-track: forse che con queste due canzoni il cantautore avesse già detto tutto. chissà.
Il lato B è da svenarsi. Intanto Battiato canta in tedesco, francese e inglese. Francese non so, non lo conosco; il tedesco nemmeno ma ho un'amica che lo parla, e l'inglese lo conosco. Posso dire che la pronuncia di Battiato è, a tratti, improponibile. Ma poi cosa gli è venuto in mente di riadattare 4 opere del Settecento/Ottocento a cui "regala" (si fa per dire) un tappeto musicale linearissimo e piattissimo che pare un riciclo delle precedenti 4 canzoni. Per dire, l'Orchestra Londinese, che qui suona, sembra quasi un inutile orpello al protagonismo di Battiato, che canta, a volte recita, poi s'interrompe, dunque riprende, e non "acchiappa" mai l'ascoltatore, anzi, lo allontana con quel gusto insopportabile di chi snobba le masse atteggiandosi a filosofo d'alto bordo. Che poi filosofo lo è sempre (un po') stato, ma dipende in che modo: così è snobismo non degno di cotanta causa. Va detto che l'anno prima aveva scritto una colonna sonora per "Benvenuto Ciellini", una miniserie tv; nel 1992 mette in piedi al Teatro Dell'Opera di Roma uno spettacolo in due atti, "Gilgamesh" e nel 1994 presenta ad Assisi, nell'omonima Basilica, un'opera in cui offre un'interpretazione personale delle parti che compongono una Messa, titolo, ovviamente, "Messa Arcaica". Insomma, è in quel periodo lì, e non si cura troppo dell'ascoltatore: lui va dritto per la sua strada.
Altri tempi, tanto che vende anche bene. L'album riceve il Premio della Critica come "Miglior Disco dell'Anno" e vende 250.000 copie (parbleu) e Battiato, tuttofare, si occupa anche della copertina. Il cammellone raffigurato è attribuito ad un misterioso Suphan Barzani, pseudonimo di un giovanissimo Battiato che così si firmava.
Elenco e tracce
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Altre recensioni
Di tom traubert
«Povera Patria è una delle canzoni italiane più belle di sempre e non ha certo bisogno di presentazioni.»
«L’ombra della luce è una vera e propria preghiera universale, adagiata su un tappeto musicale di rara bellezza.»