Più che mai complessa è la valutazione di questo importante tassello della discografia zappiana degli anni '80. Valutazione che si basa, anzitutto, su due considerazioni: la prima riguarda l'innegabile presenza, all'interno del repertorio proposto, di alcuni "punti deboli", intesi come brani poveri di spunti significativi e caratterizzati da scelte a dir poco discutibili in termini di arrangiamento; tali punti deboli hanno da sempre condizionato il giudizio, tendenzialmente negativo, che su quest'opera si è espresso negli anni. L'altra (e altrettanto importante) considerazione da fare è che con "Them Or Us" siamo innegabilmente in presenza di un passaggio cruciale, determinante per l'evoluzione dello Zappa chitarrista: emergono qui una padronanza e un controllo dello strumento mostruosi, sconvolgenti, maniacali, espressione di una "conoscenza totale" delle forme musicali che il Nostro ha ormai acquisito ad uno stadio molto avanzato.

L'avanguardia estrema, lo sperimentalismo tecnologico del successivo "Jazz From Hell" apparirebbero fatti isolati e difficilmente giustificabili, qualora si prescindesse dall'album in questione e non gli si attribuisse la giusta importanza storica. Né si potrebbe adeguatamente interpretare la crescita di Zappa senza pensare al decisivo ruolo avuto da Steve Vai nella realizzazione di questo album; in quegli anni si era instaurato fra i due un reciproco e produttivo scambio di vedute, una tale condivisione di idee che è quasi inutile domandarsi oggi chi dei due abbia influenzato l'altro. Se è vero che Vai non sarebbe esistito senza Zappa (o comunque avrebbe suonato in modo molto diverso), è altrettanto vero che l'incontro con Vai aveva rappresentato, per il Re dei Matti, una svolta di quelle epocali, poiché per la prima volta si era trovato a collaborare con un chitarrista con cui potesse davvero confrontarsi: per questo ci penserei su a lungo, prima di considerare il rapporto fra i due nei termini di una semplice dialettica maestro-allievo (o almeno, non più e non soltanto in questi termini).

Partiamo dai "punti deboli", che sono francamente pochi, e comunque non tali da giustificare l'opinione di chi considera questa una prova "trascurabile" rispetto a quanto Zappa avesse prodotto prima e, in prospettiva, anche ai suoi futuri lavori. Giudizi negativi in parte sollecitati anche dal carattere frammentario (ma non dispersivo) dell'album, in cui convivono registrazioni effettuate per un periodo di più anni. Certo è che la cover di "The Closer You Are", il vetusto successo dei Channels con cui si apre il disco, è un episodio a dir poco risibile, insignificante, quasi provocatorio nel suo rimandare alle atmosfere di certo Mainstream Pop anni '50: puro "divertissement" senza grandi pretese, privo di particolari motivi d'interesse e anche di quell'indispensabile dose di dissacrante ironia che Zappa solitamente dispensava, quando si trattava di proporre all'ascoltatore simili bizzarrie (ironia che invece ritroviamo, più avanti nell'album, nella spassosa "Be In My Video", presa in giro neanche troppo velata nei confronti della cultura del videoclip: imperdibili, in quel caso, i coretti stile "Mothers" e i raccapriccianti suoni gutturali prodotti da Zappa, a scimmiottare Elvis Presley e il Doo Wop).

Non esaltante neanche il Rock Blues scontato di "In France", nonostante una chitarra graffiante e un testo "impegnato" (d'obbligo le virgolette) che letteralmente prende a torte in faccia i Francesi e la loro cultura. Così come non sorprendono le pur personali riletture di due classici del passato: in primo luogo, quella "Sharleena" già comparsa su "Chunga's Revenge" e qui riproposta in una zuccherosa versione troppo sbilanciata sul fronte dei vocalizzi corali, nonché riarrangiata a tempo di Reggae in fede a una scelta di dubbio gusto (pregevole l'assolo del leader, ma è pura routine: molto meglio la versione originale, di quella che peraltro è una delle più belle "songs" mai scritte da Zappa); trattamento analogo (e in questo caso, forse, il Reggae ci sta anche peggio) per "Whipping Post", la celebre e immortale maratona chitarristica della Allman Brothers Band: degne di nota certe brillanti intuizioni ritmiche della batteria di Chad Wackerman, non altrettanto si potrebbe dire dell'anonima e pedestre imitazione di Gregg Allman proposta dal vocalist di turno (Bobby Martin), molto calcata su tipici accenti "bluesy" ma di poca personalità. E comunque, le cose peggiori dell'album sono l'ossessivo e ripetitivo riff di "Ya Hozna", perso fra un marasma di voci filtrate da un sintetizzatore troppo invadente, e il banale intermezzo da musical di "Planet Of My Dreams", in cui si tocca veramente il fondo.

Ma veniamo ora al lato migliore dell'opera, quello che più giustifica le quattro stelle che senza esitazione le ho assegnato, e che merita l'appellativo di "magnifico": mirabolanti e acrobatiche prove di bravura chitarristica, indelebili testimonianze di un virtuosismo qui all'ennesima potenza ma anche di una sempre maggiore disinvoltura nella contaminazione dell' "apparentemente inconciliabile". Musica senza confini e limitazioni di sorta, insofferente delle convenzioni e di ogni realtà sonora nettamente catalogabile.

Si dirà, fare simili considerazioni quando si parla di Zappa è un po' come scoprire l'acqua calda; quel che importa ribadire è come in "Them Or Us" la già consolidata attitudine di Zappa alla contaminazione sia supportata da una sicurezza, da una solidità nell'approccio e nell'esecuzione che legittimano appieno il confronto con alcune perle del passato: la trilogia Jazz in primo luogo ("Hot Rats", "Waka-Jawaka" e "The Grand Wazoo"), pur senza sottovalutare gli altrettanto importanti dischi della seconda metà dei '70, a cominciare da "Apostrophe".

Caratteristica dello Zappa di quegli anni è il diffuso ricorso a una dialettica di scomposizione e ricomposizione, per certi versi affine a quella del Miles Davis elettrico, e che si articola in tre momenti: ripresa degli elementi forniti dalla tradizione, radicale decontestualizzazione degli stessi e loro assemblaggio a creare forme nuove, inusitate, difficili all'ascolto.

E difficilmente si potrebbe sostenere che pezzi del calibro di "Sinister Footwear II" e "Truck Driver Divorce" siano pezzi agevoli a un primo ascolto, soprattutto per un pubblico del tutto (o quasi) digiuno d'arte zappiana: il primo, in particolare, merita di essere considerato una vera e propria "composizione per orchestra elettrica", tale è l'intricata complessità delle partiture, delle linee strumentali che si mescolano e si susseguono senza sosta in un frenetico "interplay" dagli esiti astrali e sconvolgenti. Musica fatta per stupire e disorientare, capace di portare l'ascoltatore verso lidi lontani da quelli immediatamente immaginabili: è quanto accade in "Truck Driver Divorce", che prima parte al ritmo di un melenso Country "Old Style" misto a richiami Vaudeville, per poi evolvere all'improvviso in qualcosa di non facilmente definibile, in una "Free Form" interamente occupata da un lungo, vorticoso, delirante dialogo fra la chitarra solista e la batteria di Chad Wackerman.

Sullo stesso (altissimo) livello si pone la "title track", che altro non è se non un chilometrico assolo registrato dal vivo a Bolzano nel luglio del 1982, e poi ritoccato con sovraincisioni in studio; eccelse sono anche "Marqueson's Chicken", formidabile nella sontuosa apertura dai sapori arabeggianti e nevrastenica nel fraseggio solistico imposto dal leader su semplice tema di due accordi, e "Baby Take Your Teeth Out", con parte centrale occupata da una suggestiva sezione Jazz.

Una menzione a parte merita la triviale (ma accattivante) "Stevie's Spanking", pesante dedica a Steve Vai scandida dalla ricorrenza di un classico riff dalle tinte Hard; non senza ironia il testo (c'era da aspettarselo, d'altronde), ma quel che più risalta è la spettacolarità dell'assolo eseguito dallo stesso Vai, capace di far risaltare una propria e peculiare individualità timbrica pur nella sostanziale condivisione dell'estetica chitarristica zappiana; non soddisfano appieno, invece, gli interventi di Tommy Mars al sintetizzatore, ma tutto sommato questa volta è l'atmosfera generale del pezzo (molto "kitsch") a rendere adeguata la scelta.

Breve cenno, infine, anche per la fantasiosa parentesi di "Frogs With Dirty Little Lips", sconcio e surreale siparietto "nonsense" la cui ispirazione era stata (a quanto pare) fornita a Zappa dal figlio Ahmet Rodan: un pregevole esempio di cooperazione intra-familiare...

Album molto interessante quindi (per chi ha la pazienza di apprezzarlo), non un capolavoro ma emblematico dello stile zappiano anni '80 e ascolto d'obbligo per tutti gli appassionati

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