Bèh ammettiamolo: se c'è stato un genere che più di altri ha dato i natali (perlomeno artistici) ad una moltitudine di personaggi eccentrici, per non dire bizzarri, ma sicuramente carismatici, quello è stato il progressive. Qua non parliamo certo di casi limite come i Magma, con il loro modo di esprimersi strettamente kobaiano, di Peter Gabriel in tenuta da fiore o, peggio, da slipperman, o di Jamie Muir, inquietante nel suo modo di percuotere oggetti di dubbia compatibilità con il concetto di "percussione" dietro ad un imperturbabile Fripp, ma di una cantante che, in quanto a personalità "distorta" e stile a dir poco singolare, può benissimo collocarsi sullo stesso piano della Slapp Happy/Henry Cow Dagmar Krause. Stiamo parlando di Jill Saward, leader, chitarrista, flautista e chi più ne ha più ne metta dei Fusion Orchestra, band che, nel lontano 1973, diede alle stampe un LP dal valore musicale inestimabile, inspiegabilmente rimasto vittima dell'indifferenza generale ed ancora oggi praticamente sconosciuto.

Il disco in questione reca il nome di "Skeleton In Armour" e vede impegnati nella sua esecuzione, oltre alla già citata vocalist e tuttofare, Colin Dawson alla chitarra, Dave Cowell al basso e all'armonica, Dave Bell alla batteria e Stan Land a tutto il resto (terza chitarra, sintetizzatori, percussioni e fiati). Le tracce si susseguono alternando momenti lunghi, complessi e particolarmente ispirati, ad altri brevi, umoristici e quasi caricaturali (di usanza prettamente canterburyana tanto per intenderci), in cui traspare il divertimento con cui questi ragazzi inglesi hanno dato alla luce un lavoro capace di trasmettere freschezza e coinvolgimento ad ogni nuovo ascolto.

I fiati di Sten aprono il sipario ("Fanfairy Suite For 1000 Trampits Pt. One") introducendo la spettacolare e travolgente "Sonata In Z", durante la quale i musicisti creano un mosaico immenso di frammenti strumentali intrecciati fra loro e tenuti uniti dall'incontenibile cantato di Jill, quest'ultima in splendida evidenza anche durante le sue rapide fughe flautistiche e gli squillanti vocalizzi, ricorrenti pure nella funambolica "Have I Left the Gas On?", insieme ai taglienti assoli chitarristici di Colin e ai controtempi dettati dalle bacchette di Dave, davvero fenomenale per l'intera durata dell'opera.

L'altro Dave, dopo aver intrattenuto l'ascoltatore con un simpatico intermezzo a base di armonica ("Ok Boys, Now's Our Big Chance"), dispone, durante la title track, di buttarsi in una fitta e pulsante marcia di basso, sostenuta dal ritmo proposto dall'omonimo e sempre su di giri compagno batterista, il quale, dopo quest'ennesima lezione di stile, decide di concedersi un po' di relax nel corso della leggerissima e quasi fuori luogo "When My Mamma's Not at Home", in cui Jill sembra prendersi gioco di noi, spiazzandoci ancora una volta e schernendoci con sempre più improbabili vocalizzi sul finale, seguiti, probabilmente non a caso, dalla brevissima "Don't Be Silly Jilly".

Le chitarre tornano alla ribalta con i toni decisi e a tratti aggressivi di "Talk to the Man In the Sky", ultimo monumento musicale del disco, dove tecnica, trasporto e repentini cambi di ritmo e d'atmosfera sono all'ordine del giorno e riescono a coesistere in uno stato di invidiabile armonia, perlomeno fin quando i fiati di Stan non tornano a sancire la fine del viaggio con le arie celebrative di "Fanfairy Suite For 1000 Trampits Pt. Two", che ha per l'appunto l'ingrato compito di abbassare le luci su di uno spettacolo tornato in replica dopo anni e anni di immeritato silenzio, ma che, forse, tramite nuovi ascoltatori, potrà evitare di sprofondare nuovamente negli abissi da cui è stato ripescato, poiché, durante approfondite perlustrazioni di fondali dimenticati, è plausibile aspettarsi di recuperare uno scrigno o dei vecchi gioielli, ma un intero scheletro in armatura, al giorno d'oggi, supera ogni più rosea aspettativa. Un capolavoro sfiorato.

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