La deriva imposta ai Gang of Four post Solid Gold non è stata la stessa, fortunata, che ha portato negli anni 80 gruppi quali i Talk Talk o, sempre in ambito mainstream, i Tears for fears, a reinventarsi con successo (si pensi al coltissimo pop Jazz di Spirit of Eden ed al brit-soul di The Seeds of Love). 

Con la fuoriuscita di uno degli elementi cardine di quel geniale post punk di fine 70, ovvero il bassista Dave Allen, qualcosa si spezza. I Gang of four dell'82, pur contando su tre altrettanto forti personalità: John King alle parole, Andy Gill alla chitarra e Hugo Burnham alla batteria, non riescono più a ripetere i fasti di Enterteinment e di Solid Gold. Non che Sara Lee, che subentra al basso per questo Songs of the Free, fosse l'ultima arrivata

Il terzo capitolo della band-più-politicamente-impegnata di Leeds è uno strano esperimento che, se da una parte cerca di mantenere le atmosfere ruvide e polemiche dei suoi predecessori, dall'altra concede sorprendenti rotondità e leggerezza soprattutto per quanto riguarda i suoni e gli arrangiamenti vocali.

Già nell'opener "Call me up" ci si trova di fronte ad una idea di canzone più seduta e prevedibile che non ha nulla a che fare con le schegge impazzite dell'esordio: basso regolare, backingvocals panoramici, chitarra dilatatissima. Insomma, in confronto al dittico c'è meno tiro.

Al secondo pezzo sai già che i fedelissimi dei primi due album sono già passati ad altro e che forse i GOF se la possono giocare con un pubblico nuovo. In effetti I Love a man in Uniform è un pezzo strepitoso: uptempo, ballabile, cantabile. Un pezzo disco che non ti aspetteresti da coloro che hanno scritto capolavori post punk come "To hell with poverty" e "Damaged Goods".

Se per un attimo ti viene da pensare che I GOF abbiano voluto buttare tutto in vacca, allo stesso modo speri, se non altro, che tutto si mantenga ai livelli di Man in uniform. E per fortuna, Songs Of The Free contiene altri buoni pezzi. Come I Will be a good Boy, ad esempio, con melodica e voce di Gill in primo piano, la più tirata "We live as we dream alone" e gli echi à la Frankie goes to hollywood dell'ultima "Of the instant". Siamo, comunque già in ambito new-wave.

In conclusione: non un disco epocale come i primi due ma, un bell'anticipo sulla new wave a venire (e che verrà confermata dal successivo "Hard"). La riprova di avere a che fare con delle belle testoline c'è ancora. Semplicemente, come ho già detto, qualcosa si è rotto. E cercare di riparare non elimina completamente le crepe. 

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