E’ l’ultimo disco un po’ così del povero, grande Moore, prima che si decidesse a dare pienamente retta al suo cuore, mollando il colpo con class metal, fusion, progressive… tutto ciò che aveva prevalentemente suonato sin lì, più o meno pressato dai discografici, dandosi al rock blues più blues che rock (magari con intarsi celtici, cioè di casa sua) con tutta l’anima. Confezionando in tal modo una seconda parte di carriera molto migliore della prima.
Qui (è il 1989) ancora non ci siamo del tutto: le chitarre adoperate sono sovente quelle sbagliate, arnesi anni ottanta con un suono impersonale e medioso. L’artista è ancora condizionato dalle mode ottantiane e suona troppe note, troppo velocemente; non dico senz’anima (impossibile per lui), ma insomma senza quell’abbandono assoluto che poi dimostrerà ampiamente.
L’inizio del disco è altresì spettacolare: la chitarra elettrica a guisa di cornamusa celtica che disegna un’atmosfera sospesa e brumosa su di un drone di tastiera. E’ la prima parte, strumentale, del brano “Dunluce” che poi verrà ripreso in traccia 11 per chiudere l’album. Gran bella performance, da brividi.
Poi però inizia la sequela di hard rock prevedibile e anonimo, qualche volta più melodico altre più metallico. Nel mezzo, l’inspiegabile “Led Clones”, “omaggio” ai Led Zeppelin, però fatto cantare da Ozzy Osborne chissà perché, tra tastiere “orientali”, ciclopica batteria Bonhamense, riffoni basso/chitarra bombastici. Gary mostra così che è capace anche lui di scimmiottare pedestramente lo stile di un grossissimo nome del panorama mondiale, come tanti, troppi altri. Va bene, ma in un lavoro in cui prevale dell’hard-pop-rock risaputo, non mi sembra il caso.
Puntuale come un treno giapponese, arriva comunque in traccia 7 lo strumentale lento, lungo e laceratissimo, vero marchio di fabbrica del nostro chitarrista, in possesso di quella particolare forza nelle mani per tirare allo spasimo le corde del suo strumento e piegarle a qualsivoglia servizio. Tale lancinante numero si intitola “The Messiah Will Come Again” e dovrebbe essere insegnato nei conservatori, per quanto il particolare talento “muscolare” di Moore possa comunicare calore e sofferenza. Sempre sia ringraziato, in aggiunta, il signor Lester William Polsfuss detto Les Paul, per avere inventato e fatto commercializzare dalla Gibson quella chitarra dai pregi unici, l’unica che riesca a permettere performances sonore come questa di Moore.
Alla fine la cosa migliore, a parte l’intro/outro già considerata, mi risulta “Blood of Emeralds”, verso la fine. E’ il pezzo più lungo, oltre gli otto minuti grazie a un lungo interludio atmosferico centrale. Prima e dopo, il chitarrone di Gary descrive robustamente arie delle sue parti (Belfast), mischiandole ad un hard rock che stavolta non puzza di mainstream.
Purtroppo mi vengono tre sole stellette… La voglia di darne quattro, dopo aver ascoltato un paio di volte consecutive “Dunluce” (trattasi di un castello in rovina sulla costa nordirlandese), ci sarebbe anche, ma i dischi tutti belli di Moore sono altri. Questo lo è a sprazzi, zavorrato com’è da inutili canzonette hard rock nelle quali lui urla (e non è cosa) e smitraglia senza costrutto.
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