Il temporaneo flirt con i groove e le ambientazioni elettroniche termina dopo un paio di album e col nuovo secolo, al suo tredicesimo lavoro solista, Moore torna… dalla moglie, cioè al blues. Quello suo, robusto e sonoro, lancinante e guerriero, episodicamente pacato e riflessivo nei giorni che gli prende la luna malinconica.
“Enough of the Blues” attacca in stile acustico arcaico col dobro. Ma sono trenta secondi, poi arriva la Fender ad abbaiare: perfetto, ci si sente a casa, la sua.
“You Upset Me Baby” è una cover di B.B. King con necessaria sezione fiati, perfetta per marcare gli stop&go nel suo percorso. L’artista imbraccia sicuramente la Gibson 335 uguale a quella der babbo suo Blues Boy il Re, quella in copertina insomma.
“Cold Black Night”: paurosa, tiro cosmico. Stratocaster massacrata.
“Sormy Monday” è un famoso slow blues di T.Bone Walker, palestra perfetta per esibirsi in quei vibrati assassini, ampissimi, devastanti.
“Ain’t Got You” di Calvin Carter è un classico shuffle noto per il mitico “gancio” dello stop e riffone di armonica, qui surrogata dalla chitarra del nostro.
“Picture of the Moon”: eccolo a metà disco il puntuale lentone sfila-mutande, anche se lui in realtà canta di essere stato lasciato solo. E s’immalinconisce, gli è rimasta solo una luna in fotografia… La Les Paul giallastra del ’59 fa la solita porca figura, in mano al suo più degno utilizzatore.
“Looking Back”: questa è di Johnny “Guitar“ Watson ed è un rock’n’roll corto, svelto e cadenzato.
“The Prophet” è lenta di nuovo ma diversa, perché è strumentale e molto blues. La leggenda irlandese ci parla, letteralmente, nella maniera più lancinante e malinconica raggiungibile sulla chitarra elettrica. Pezzone inenarrabile, specchio di un’anima instabile e mesta. Il finale lunghissimo, giocato maneggiando la manopola del volume, è straziante.
“How Many Lies” è un boogie blues scolastico, ma brillante. Chitarra “sottile” di timbro, dev’essere una Telecaster. Il maestro ne abusa per sei minuti buoni, per il nostro godimento.
“Drowning in Tears”: ancora la malinconia di Moore in un numero finale interminabile, ma che si beve tutto d’un fiato. Lui piagne, piegato, e la sua chitarra insieme a lui. Devono averlo lasciato in tante (tipo intrattabile, dice Glenn Hughes… uno buono!). Per me le donne lo lasciavano per farsi dedicare dei pezzoni così, che per chi ci capisce sono irraggiungibili nirvana di piacere e ammirazione. In certi punti esegue quattro note al minuto, massimo, pizzicandole e poi vibrandole a lungo in tutte le maniere, con l’amplificatore che gli restituisce le armoniche sempre in maniera diversa, che sia benedetto anche lui. Non se po’ capì… la qualità! La sensibilità! Il cuore! La comunicativa… Una perla! La perla più grossa del disco. Con l’ultima pizzicata di corda fa durare il suono per un minuto, ci fa un discorso. Che roba.
La canzone sfuma lentissima e con essa il disco ma lui è ancora lì, che sfiora qualche corda, lacerato. Quanto avrei voluto esserci quella sera, quella notte in sala di regia a vederlo, oltre che sentirlo, suonare quest’addio ad una tipa sua, in questa maniera così sublime!
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