Sul doppio disco che segnò la fine del rapporto tra Peter Gabriel ed i Genesis è già stato detto e scritto moltissimo. ”The Lamb lies down on Broadway” è uno di grandi dischi degli anni settanta, da alcuni celebrato come un mito, da altri considerato un’opera supponente ed incompiuta. Molti lo hanno recensito negli anni in maniera più competente e approfondita di quanto non abbia la pretesa di poterlo fare io. Per questo mi vorrei soffermare su un paio di aspetti che a mio parere non sono mai stati evidenziati a sufficienza.
Uno dei meno considerati a mio pare è il fatto che “The Lamb…” sia a tutti gli effetti il il primo, e fatemi dire l’unico, disco di (vere) canzoni dei Genesis/EraGabriel, tralasciando la pochezza dell’acerbo esordio di “From Genesis to Revelation”. Le canzoni di The Lamb sono sicuramente le migliori che i Genesis abbiano mai scritto nel format binomico di strofa e refrain. E non mi riferisco solo alle celebri “The Carpet Crawlers”, “Counting out time” o “The Lamb lies down” stessa. Ma sto pensando ad un potenziale singolo come “Anyway”, alla assoluta bellezza di “The Lamia” ed alla progressione vincente di un pezzo come “It” che anticipa tutti i Genesis a venire. Si, ribadisco che le canzoni sono straordinarie rispetto al passato, dove fantastiche erano sicuramente le atmosfere, le lunghe suite musicali ed i fraseggi strumentali ricchi di pathos. Qui siamo totalmente da un’altra parte però. La matrice progressive della band si perde consapevolmente in una contaminazione di stili più affini al rock tradizionale e ne esce arricchita e rinnovata. Penso alla superba “Lilywhite Lilith” ed alla sua assonanza con “Kashmir” degli Zeppelin ad esempio… Ed è proprio questo spostamento di orizzonte che fa di “The Lamb…” un disco più coraggioso e meno parziale dei suoi predecessori. Tutto ciò al netto di una storia di fondo, a mio parere, troppo complicata. Una scommessa tutta “gabrielana” imposta alla band, un progetto che sconta un concept piuttosto debole ed una una poetica a tratti forzosa. Paradossalmente, il recupero di un certo sintetismo musicale, da un lato ci restituisce i Genesis come gruppo apparentato al grande rock dei seventies, dall’altro finisce per contrastare con una certa verbosità che appesantisce i testi, a partire dai titoli stessi delle canzoni.
L’effetto finale è quello di un disco pienissimo di promesse e di spunti musicali, la summa di 5 anni di meravigliosa musica pensata ed eseguita in maniera unica ed originale, ma probabilmente non compiuto come lo furono altri must di quei tempi. Penso a “Tommy” degli Who o allo stesso “The Wall” dei Floyd di qualche anno dopo. Per questo, sul fatto che il disco sia un capolavoro assoluto ho molti dubbi. Forse la gestazione dell’album da “separati in casa”, Gabriel da una parte e i ragazzi in studio dall’altra, forse l’ostinazione dello stesso Gabriel nello spettacolarizzare un soggetto che è in fondo una sua “grande pippa mentale”. Questo alimenta l’opinione di chi afferma che il disco non abbia il respiro del masterpiece ma piuttosto l’eterogeneità stilistica del lavoro di transizione più ancora di quello di arrivo. Non potremo mai sapere cosa avrebbe potuto generare lo sforzo immane di “The Lamb…”, non ci furono puntate successive. Certo è che l’unità della band ne fu minata irrimediabilmente. Ci dobbiamo accontentare delle ottime ma (stilisticamente) inconciliabili prove successive del Gabriel solista e della band di “A Trick of the tail”; il primo alla ricerca della sua reale cifra stilistica come grande interprete, gli altri a recuperare lo scettro di miglior band progressive del secolo.
Quello che però va dato atto a “The Lamb lies down on Broadway ” è la clamorosa originalità del progetto che prende forma a solo un’anno dallo spettacolare ma molto più canonico “Selling England by the sound”. E di questo dobbiamo dare merito invece al coraggio visionario di Gabriel. Quale altra band, appena raggiunto il successo planetario dopo anni di gavetta, avrebbe avuto la forza e la spregiudicatezza di voltare pagina. In “The Lamb” non si fanno sconti ne si cercano compromessi con le solide basi create da dischi ormai celebrati come “Foxtrot” o “Selling England…” Qui le rassicuranti tinte pastello vengono sostituite senza gratitudine da uno scomodo bianco e nero. Fiabe e folletti vengono messi alla berlina ed è un oscuro ambito urbano il contesto nel quale prendono vita tutte le nuove composizioni. La stessa rinuncia agli scenari fortemente evocativi del passato, in ragione di una claustrofobica discesa nella New York sotterranea, risulta quasi provocatorio. In questo spaesamento contestuale sono proprio Banks e Rutheford, loro malgrado, a forzare la linea di continuità con il passato, riuscendo a creare una sorta di processo di transizione verso le nuove sonorità. Tra il proto punk di “Back in New York City” ed una popsong inaspettata come “Counting out time” c’è comunque sempre una “Hairless heart” che funge da bridge rassicurante. E se l’intro di “Colony of Slipperman” sembra uscito da “Before & After Science” di Eno, il successivo attacco di tastiere riporta tutto a tutto a casa, quasi si stesse parlando del sequel di “Harold the Barrell”. Ecco la fotografia stessa del disco. Da un lato c’è Gabriel che forza il salto in avanti delle canzoni, verso sonorità e scenari più attuali, dei quali la New Wave prima ed il Post Punk dopo si approprieranno in forme diverse. Dall’altro una band non ancora pronta al salto stesso, per cui inevitabilmente ancorata alle proprie certezze stilistiche. Anche per questo “The Lamb…” non decolla come forse avrebbe potuto se la visione della band fosse stata più solida ed unitaria. Ma è un ipotesi, una lettura piuttosto semplificata di quello che fu.
Il resto è materia per dibattiti da forum, tra fans dell’ hard progressive più puro e chi intravede già le sperimentazioni del Gabriel solista come via d’uscita da una certa impasse stilistica. E hanno ragione entrambe, perché se da un lato la musica era destinata a cambiare fortemente alla fine del decennio e Peter Gabriel ne sarà testimone fattivo, dall’altra parte i Genesis ri-troveranno la vena creativa per confezionare altri ottimi dischi come “A trick of the tail” e “Wind & Wuthering”, prima di sprofondare in scontatezze pop da classifica. Che si voglia o no, “The Lamb” resta comunque il testamento di una grandissima band che purtroppo o per fortuna non sarà mai più la stessa anche se vivrà di rendita per decenni sui ricordi di questi fasti. E’ un disco epocale, a tratti difficile e controverso, comunque unico e inarrivato, sicuramente il degno epilogo di una storia irripetibile.
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Altre recensioni
Di lucio lazzaruol
Questo album è musica non cerebrale, accessibile e godibilissima, con una profondità di contenuti ancora oggi non del tutto esplorata.
Il gruppo è decisamente più aggressivo in In the cage e specialmente in Back in NYC, brano che Gabriel poi riprenderà dal vivo durante la sua carriera solistica.