I Genesis di Collins: ultimo atto.

Facciamo un piccolo resoconto della carriera dei Genesis dalla seconda metà degli anni '80 al 1992, anno di pubblicazione di questo "The Way We Walk".
Nel 1986, per la gioia delle radio (nonché dei commercianti, della casa discografica Virgin e del portafoglio di Banks/Collins/Rutherford) esce nei negozi "Invisible Touch". Come molti sapranno, si tratta di un prodotto iper-commerciale, nato esplicitamente per vendere: un calderone di hit dallo spessore pressoché nullo. Gli unici pezzi che si salvano sono appunto quelli che non entreranno in classifica, ovvero Domino e The Brasilian… in uno slancio di bontà inserirei tra le accettabili anche Tonight Tonight Tonight.

Dopo ben cinque anni di pausa, il trio torna in studio per incidere "We Can't Dance". L'album, nonostante sia piuttosto altalenante, si presenta superiore rispetto al suo predecessore: accanto ai soliti scivoloni nel vuoto pneumatico musicale, possiamo ascoltare canzoni piacevoli e ben strutturate come Driving The Last Spike, Dreaming While You Sleep e Fading Lights.
È proprio dal tour del di "We Can't Dance" che viene estrapolato il concerto "The Way We Walk". Il live è diviso in due CD venduti separatamente (un'abile mossa per accontentare tutti e massimizzare le vendite?): il primo è composto da tutti gli hit da classifica degli anni '80/'90, mentre il secondo presenta brani più complessi, con persino qualche inaspettato «salto» nell'era Gabriel.

Passiamo ora all'analisi dei due dischi…

Volume One: The Shorts.
La prima traccia che troviamo è il tormentone Land Of Confusion… ovvero uno di quei rari casi in cui la riduzione delle drum-machines va a peggiorare la situazione: a questo punto, dà maggior soddisfazione la versione in studio, dove il ritmo viene evidenziato in maniera più decisa.
Nettamente meglio faranno le successive No Son Of Mine e Jesus He Knows Me. La prima si distingue sia per un sound decisamente coinvolgente che per la buona performance di Collins dietro il microfono… mentre l'altra è impreziosita da un testo impegnato dove vengono denunciate l'eccessiva ricchezza e la vita frivola dei «predicatori del tubo catodico».
Throwing It All Away ed I Can't Dance, allungate a dismisura (al limite della noia), fanno da apripista per una delle migliori canzoni del periodo post-"Duke". Stiamo parlando di Mama: confesso che la conturbante melodia ed il battito primordial-digitale hanno sempre esercitato un fascino magnetico su di me!
Torniamo a livelli piuttosto bassi con la melensa Hold On My Heart che, nel male, riesce a rivitalizzare la piattissima versione in studio.
Ora arriva l'ultimo colpo di coda del primo volume con il piacevole easy-listening di That's All… infatti, da qui al termine, troviamo In Too Deep (altro pezzo zuccheroso all'inverosimile), Tonight Tonight Tonight Tonight (che non sarebbe nemmeno tanto male, se non fosse stata mutilata) e l'insignificante Invisible Touch.

In sostanza il "Volume One", a parte una manciata di brani godibili, non presenta praticamente nulla di significativo.
Inseriamo nel lettore il secondo volume… sperando che si possa ribaltare una situazione che, al momento, non sembra affatto rosea.

Volume Two: The Longs.
Qui è proprio il caso di dirlo: si tratta di tutt'altra musica. Anche il trio, al quale si uniscono i sessionmen Chester Thompson e Daryl Stuermer, sembra molto più compatto ed ispirato.
L'apertura è affidata alla Old Medley: certamente l'idea di fare un taglia e cuci delle loro migliori composizioni non è molto esaltante… se non altro, il fatto di rispolverare brani che il gruppo non suonava più da oltre un decennio, è tutt'altro che disprezzabile. Il primo che troviamo è l'energico Dance On A Volcano, seguito a ruota da The Lamb Lies Down On Broadway e dalla conclusione di The Musical Box. Ora è il turno della parte strumentale di Firth Of Fifth: il ritmo è ottimamente scandito dalla doppia batteria… inoltre Rutherford, assistito da Stuermer, riesce a ricalcare in maniera discretamente brillante le parti di Hackett. A chiudere il medley troviamo I Know What I Like sulla cui coda vengono innestate That's All, Illegal Alien, Your Own Special Way, Follow You Follow Me e Stagnation.
I brani che troviamo da qui in poi non si possono definire propriamente progressive: sono, più che altro, le migliori «canzoni estese» dei Genesis ridotti a trio.
Possiamo subito ascoltare Driving The Last Spike, che narra le pietose condizioni in cui erano costretti a lavorare, nel 19° secolo, gli operai adibiti alla costruzione delle ferrovie. Il pezzo, un vero gioiellino dell'era Collins, è interpretato con una sorprendente delicatezza: chitarre e synth meno invadenti gli conferiscono un fascino superiore alla già ottima controparte in studio. Seguono la discreta Domino e l'interessante Fading Lights, nella quale troviamo un buon assolo di Banks.
Prima del Drum Solo conclusivo troviamo Home By The Sea/Second Home By The Sea… nella media la prima, fresca e stuzzicante la seconda.

Come era intuibile, il piacevole "Volume Two" riesce ampiamente ad eclissare il primo disco, riportando il concerto ad una media sufficiente… se proprio dovessi fare due votazioni separate, metterei un due stelle scarse a "The Shorts" e quattro nette a "The Longs".
In conclusione, nonostante "The Way We Walk" sia un concerto decoroso, è pur sempre un prodotto per completisti che non può competere con i magnifici "Live" e "Seconds Out". È comunque apprezzabile il fatto che lo stesso Collins, già convinto di abbandonare il gruppo, abbia voluto fare qualcosa di più rispetto al precedente "Invisible Touch" (e relativo tour).
Se qualcuno, tuttavia, fosse incuriosito e volesse spenderci dei soldi… gli consiglio caldamente solo il secondo volume.

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