Il 12 mi lascia al capolinea. Chiedo all'autista, che mi guarda come se fossi un'aliena, ma sì, è quello il posto giusto. Mi lascio accarezzare dal primo freddo triestino mentre mi guardo attorno decisamente spaesata. Il Comprensorio è fatto di edifici di ogni foggia e funzione. Giro attorno a un paio di costruzioni basse, silenziose, buie. "E ora a chi chiedo?", domando a me stessa, procedendo in una direzione a caso: una strada in discesa, completamente deserta. Finalmente un ristorante, gente che fuma al freddo di una sera limpida di ottobre. Chiedo e finalmente riesco a capire dov'è il Teatrino. Scendo ancora a grandi passi, con aria quasi baldanzosa, quindi mi fermo fuori ad un altro edificio, uno di quelli che una volta facevano parte del manicomio cittadino. Aspetto fuori e fingo di trafficare un po' col cellulare, ancora non c'è nessuno. Finalmente mi decido a entrare: sono in anticipo di oltre un'ora e la sala è completamente vuota. Scopro con piacere che il concerto è gratuito e recupero timidamente la prima fila, un posto centrale. Sul palco, circondato da tende nere, ci sono una sedia di legno, tre chitarre, un libro, dei fogli sparsi e un calice di vino bianco. Il teatro intanto inizia a riempirsi, i vicini di posto cianciano del più e del meno, mentre accanto a me resta un posto libero, poi occupato da un signore avvinazzato e con tanta voglia di parlare. Alle 21 la sala è piena, tanto piena che una decina di persone vengono fatte sedere sul piccolo palcoscenico "per motivi di sicurezza". Invidia.

Si spengono le luci e fa il suo ingresso un signore distinto, con capelli e baffi grigi, occhiali, vestito con giacca e pantaloni grigio scuro. Fa un piccolo inchino, si siede e imbraccia una delle chitarre. Bando alle ciance: s'inizia subito con "Dentro la tasca di un qualunque mattino". Il pubblico ammutolisce e io sorrido tra me e me, come non posso fare a meno di fare. Subito, fin dall'inizio, quella delicata tenerezza che contraddistingue i lavori di Testa immerge il piccolo teatro in un'atmosfera sospesa. L'applauso dopo la prima canzone, decisamente troppo forte, sembra del tutto fuori luogo, così come i successivi.
Quel signore garbato sul palco - tra una sorsata di vino e l'altra, tra una canzone e l'altra, tra un applauso e l'altro - racconta, legge poesie (nella fattispecie, "Valore" di Erri De Luca e diversi componimenti dell'amico Pier Mario Giovannone). Parla a bassa voce, quasi un sussurro centuplicato dal microfono. Racconta di stazioni, di donne, di lune e di radio. Il pubblico ride più volte (a fine concerto sentirò qualcuno dire che sembrava di essere a uno spettacolo di cabaret). Ovviamente non tralascia la musica: "Un aeroplano a vela", "Veduta aerea", "Sei la conchiglia", "La tua voce". Un repertorio che mi sorprende piacevolmente, me ne aspettavo uno più simile a quello del recente "Solo dal vivo". Cerco nella borsa una penna per segnare la scaletta, ma non la trovo. Siate clementi, mi sto affidando alla memoria.

Il pubblico ride quando Gianmaria Testa si alza in piedi e imbraccia una chitarra elettrica: "Ho comprato questa chitarra elettrica perché penso di aver scritto una canzone rock-blues. E, se non mi credete, ho comprato anche un paio di occhiali da sole". Inforca le lenti scure e suona "Via da quest'avventura" in quella mise un po' stravagante: sembra un quadro surrealista, ma l'esecuzione è comunque più che piacevole.

E ancora: "Polvere di gesso", "Biancaluna", "Comete". E poi la sorpresa: "Molti quest'anno hanno eseguito suoi pezzi a sproposito. Questa sera lo faccio anche io". Intuisco e fremo: De André. E infatti ci regala una splendida versione di "Hotel Supramonte", fatta di chitarra, voce, cuore. Come tutto il concerto, del resto. Canto assieme a lui, trascinata dalla semplicità e dal rispetto con cui canta quella canzone.

E' finalmente la volta di brani tratti da "Da questa parte del mare". Inizia con "Seminatori di grano", poi è la volta di "Rrock", che però s'interrompe alla prima strofa. "Scusate, l'emozione mi strappa via le parole". Ricomincia da capo, quindi prosegue con "Forse qualcuno domani", "Il passo e l'incanto", "3/4". Non fa "Ritals" e resto un po' con l'amaro in bocca, ma "Al mercato di Porta Palazzo", con il suo andamento da filastrocca, mi restituisce il buon umore. Testa chiede al pubblico di collaborare con lui, cantando la parte che nel disco è riservata agli strumenti.

Alla fine esce, ma, come prevedibile, il pubblico lo reclama a forza di applausi. Lui non si fa desiderare troppo, esce e ci regala l'ultima perla della serata, "Miniera", un canto di emigranti degli anni Venti che parla di miniere, di nostalgia, di tristezza.
Quella stessa tristezza che ci provoca la fine di uno splendido concerto. Un senso di amarezza accompagnato dalla soddisfazione per aver gustato a piccoli sorsi così tante perle in una serata sola, così come il cantautore ha gustato il suo bicchiere di vino bianco.

Attraverso la sala, cercando di urtare il meno possibile la folla, ed esco. Poi soltanto il freddo della sera.

Carico i commenti... con calma