Questo è uno dei rari casi in cui le finezze di un esordio, a dispetto di molti fattori sfavorevoli, non sono destinate a rimanere un caso isolato, ma vengono perpetuate da una splendida seconda uscita discografica, nata dopo una complessa e travagliata gestazione.

Dopo la pubblicazione del primo disco omonimo, nel 1975, i Gilgamesh, senza mai aver trovato una formazione stabile, si sciolgono. Ciò, avvenendo in concomitanza con la fine degli Hatfield and the North, permette ad Alan Gowen di unire le sue doti tastieristiche a quelle di Dave Stewart, creando così il nucleo dal quale si svilupperanno poi i National Health. Phil Lee e la sua chitarra seguono Alan nella sua nuova avventura, Jeff Clyne rimane in ambito fusion, formando i Turning Point (gruppo che vede impegnati, oltre lui al basso, Paul Robinson alla batteria, Brian Miller alle tastiere, Dave Tidball al sassofono e Pepi Lemer alla voce), mentre Mike Travis tenta di incrementare le sue scarse entrate di batterista suonando come session-man (purtroppo con poca fortuna visto che pochi anni dopo abbandonerà questa occupazione e tornerà in Scozia con la famiglia).

Dopo due anni Alan, seguendo l'esempio di Phil, andatosene già da diverso tempo, lascia i National Health (anche se non definitivamente; tornerà come guest durante le registrazioni del primo album) così da poter lavorare su del nuovo materiale, per lo sviluppo del quale, comunque, richiama ancora una volta a sé l'amico chitarrista. Neil Murray rimpiazza Jeff, Trevor Tomkins sostituisce Mike e, così strutturata, la band (che conserva il nome Gilgamesh) prova le nuove composizioni di Alan, ma, poco prima di entrare nello studio di registrazione, Neil se ne va e viene chiamato a prendere il suo posto Hugh Hopper, compagno di Alan nei neonati Soft Heap. Finalmente, nell'estate del 1978, viene ultimata la realizzazione di questo lavoro che risponderà al nome di "Another Fine Tune You've Got Me Into".

Il disco è possibilmente di stampo più marcatamente jazz del precedente, ma le sonorità soffuse e morbide e le conseguenti atmosfere calde e rilassate sono le medesime che caratterizzano anche la precedente fatica discografica del gruppo. Nonostante siano perlopiù composizioni di Alan, la chitarra di Phil trova grandissimo rilievo in quest'album, procedendo costantemente abbracciata dalle tastiere, tanto che i due strumenti appaiono come amanti, uniti nella dolcezza delle loro stesse note. L'iniziale "Darker Brighter" e "Play Time" si sviluppano appunto con questi presupposti, mentre la lunga e camaleontica "Bobberty-Theme From Something Else" permette al basso di Hugh di ritagliarsi uno spazio più ampio, sempre mitigato però dal massiccio uso delle tastiere, le quali, sorprendentemente, nella loro eleganza e leggerezza, non arrivano mai ad apparire invadenti o eccessive. In "Underwater Song" Trevor si lancia in un dirompente assolo di batteria all'aprirsi del brano, seguìto poi dai toni delicati delle immancabili tastiere di Alan, che sottolinea così la sua eccezionale abilità nel suonare tale strumento. Anche in questo disco, come nel precedente, sono presenti tracce più brevi, come l'intensa e nostalgica "Waiting", eseguita solo da Phil con la chitarra acustica, l'ipnotica "Foel'd Again", basata su una tetra marcia di basso accompagnata esclusivamente dalla tastiera e la conclusiva "T.N.T.F.X.", dove Phil e Trevor si scatenano e dirigono vivacemente l'album verso la sua conclusione.

Questo lavoro, pur conservando la raffinatezza dell'esordio, forse pecca nel mantenere uno stile fin troppo simile al suo predecessore (anche se parlare di mancanza di originalità in dischi così creativi è praticamente impossibile), al quale si accosta anche per una certa sonorità che può risultare indigesta ad un ascoltatore non abituato a questo genere di musica.

Vale la pena spendere due parole sulla copertina, che raffigura un dipinto di William Blake, intitolato "The Ghost of a Flea" (Il Fantasma di una Pulce, anche se in questo caso "ghost" acquisisce il valore di "spirito"), realizzato intorno al 1820 con l'appoggio del pittore e astrologo John Varley. Quest'ultimo incoraggiò l'artista a disegnare i soggetti delle sue visioni (William sin da molto giovane sosteneva infatti di averne), le quali, in quest'opera, ci mostrano come l'autore arrivasse a percepire certi minuscoli parassiti come reincarnazioni di uomini assetati di sangue, fatti rinascere in corpi infinitamente più piccoli, al fine di moderarne la voracità.

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