L'altra sera avevo la casa libera, e, complice il fatto che il mio fidanzato è in Erasmus, un mio amico si è offerto di farmi compagnia. Ho colto il rischio della cosa, ma per evitare antipatici strascichi polemici - colta l'indisponibilità a far da cuscinetto della mia amica Simona (detta, non a caso, "Simòn de Boudoir": spero capiate il riferimento) - ho accettato la gentile, e non del tutto disinteressata, offerta; ponendo come condizione il fatto che dopo la cena (take away) avremmo visto un film scelto da me. A questo punto, vista la malparata, ho pensato di far prendere un film: a) sufficientemente lungo e pesante; b) non recensito su Debaser. Dopo aver scandalosamente scoperto che in oltre 30.000 recensioni (molte delle quali inutili e scritte con i piedi) su Debaser n-e-s-s-u-n-a tratta de "La battaglia di Algeri" di Gillo Pontecorvo, ho ordinato di prendere quel film. Adesso vediamo di recensirlo e di colmare questa s-c-o-n-c-e-r-t-a-n-t-e l-a-c-u-n-a, cercando di scrivere qualcosa di intelligente, e non scontato, come mi sembra avvenga nella maggioranza dei casi.

Algeri, tardi anni '50. La città vecchia, abitata dalla popolazione araba e musulmana autoctona, è in subbuglio; soffiano venti di rivolta nei confronti della cittadinanza francese, tutta raccolta nella città moderna, e, più in generale, nei confronti dell'oppressore straniero che da oltre un secolo ha colonizzato le coste dell'Algeria. Alcuni giovani intellettuali si sono raccolti in un gruppo di protesta, che decide di passare alle armi e ad azioni concrete nei confronti del dominatore straniero. La trasformazione del gruppo in una cellula terroristica ramificata in tutta la società araba è inevitabile, come sono inevitabili le prime azioni dimostrative, seguite da azioni omicide nei confronti della popolazione civile e militare. Il Governo francese non rimane inerte, inviando, nel giro di pochi mesi, un comando di paracadutisti comandato dal colonnello Mathieu (Jean Martin, il solo attore professionista utilizzato nelle riprese), cui viene dato il preciso incarico di sgominare il gruppo terroristico e di ricondurre all'ordine la società algerina. I francesi riusciranno nella loro missione, anche se la pacificazione è tutt'altro che definitiva, radicalizzando uno scontro destinato ad esplodere negli anni successivi, fino alla liberazione del popolo algerino dalla colonizzazione francese all'inizio degli anni '60.

Pontecorvo gira un lavoro di rara bellezza e suggestione, ricorrendo ad un linguaggio estremamente realistico, che permea l'intero lavoro: dalla menzionata scelta di attori non professionisti, alla selezione delle location(s), che, grazie ad accordi con il governo algerino dell'epoca, coincidevano con i luoghi in cui si erano effettivamente svolte le vicende storiche che fanno da sfondo alla trama. A ciò si aggiunga la scelta di una fotografia in bianco e nero, che conferisce al film una dimensione quasi documentaristica. La scelta non è solo formale, ma anche contenutistica: se analizziamo il soggetto, la sceneggiatura e l'intreccio del film, è agevole cogliere come il regista ed il gruppo di lavoro abbiano optato per una descrizione im-mediata (ossia: "non-mediata") della storia, ponendoci direttamente in medias res, in un presente angosciante in cui cogliamo tutta la tensione del terrore incombente.

Non esiste un attore protagonista, e tutto ruota attorno alla vicende del gruppo terroristico; che ha certo dei leader, nessuno dei quali viene tuttavia posto al centro della scena, se non per esigenze meramente drammaturgiche. Su tutti, si staglia la figura dello stolido colonnello francese, ma egli stesso risulta un personaggio quasi inespressivo, fin dal suo apparire in scena con gli occhi velati da occhiali a specchio, quasi a celare lo specchio dell'anima occultando ogni emozione. In questo, lo stile di Pontecorvo mi sembra dunque affine a quello del primo Rosi, e, volendo risalire nelle attribuzioni e nella paternità stilistica, a quello del Rossellini di "Roma città aperta", tanto che questo film si potrebbe per certi versi intitolare come un "Algeri, città aperta", senza perdere di vista significato e scopi dell'opera.

Quanto sono andata scrivendo fin d'ora - a rileggerlo - confina pericolosamente con il banale e nulla aggiunge - se non (spero) per lo stile espressivo - a quello che potete agilmente trovare in rete o su qualche pubblicazione specifica. Qualche spunto meno banale me l'ha offerto una domanda che ho posto, a metà film ed all'improvviso, al mio ospite, rapito dall'epopea dei militari francesi: "Secondo te" - chiesi - "questo film è dalla parte degli algerini o dei francesi?". "Beh...dalla parte degli algerini, ovvio!", mi ha risposto l'amico. Anch'io sono sicura di questo fatto. Eppure non mi soddisfa del tutto, non dice tutto. Mi ha colpo, al riguardo, la frase che il colonnello francese pronuncia a metà film, quando, mettendo le mani avanti non meno di quanto non avessi fatto io nell'accettare il mio ospite in casa, espressamente dichiara di non essere un fascista o un oppressore, anche per il fatto di aver partecipato assieme alla sua compagnia alla resistenza francese nei confronti dell'occupante nazista (l'ho evidenziata in neretto perché ci riflettiate bene sopra!). La frasetta mi è rimbombata in testa per tutta la seconda parte del film, rappresentando efficacemente la contrapposizione latente che c'è, nella Algeri di Pontecorvo, fra l'anima europea e quella araba: la città francese è chiara, geometrica, netta nelle sue linee ad imitazione dei viali di St. Germain; quella araba buia, caotica, concava, similmente alle città arabe o al centro della Palermo più oscura, in contrasto con gli ampi viali savoiardi; l'esercito francese è organizzato in maniera non meno cartesiana, come cartesiana è la parata dei militari, cartesiana è la mappa degli affiliati all'organizzazione da sgominare che il colonnello traccia sulla lavagna, cartesiano è il controllo degli spazi, il tentativo di separare, scindere, di-scernere la città vecchia e quella nuova con i suoi abitanti, quasi che il bene stia da un lato, il male dall'altro.

Tutto, meno che cartesiani, sono gli algerini descritti in questo film, la cui forza terroristica è data da essere uno sciame di persone legate negli scopi ma divise nei mezzi e nelle tecniche, dall'agire con una discreta dose di improvvisazione e dilettantismo, rafforzati da una determinazione che è propria di chi vuole liberarsi dalla catena dell'oppressore, subito e senza mediazioni. Feroce, inquietante, proveniente dalle cavità dell'anima e del cuore è l'urlo della popolazione nelle scene finali del film che, quando molti terroristi si sono irrazionalmente e di-speratamente suicidiati, chiama alla rivolta finale.

In tutto ciò, Pontecorvo mi lascia dei dubbi: favorevole agli algerini, giustamente dalla parte del debole e dell'oppresso; ma, al contempo, forse per l'inconfessata ed implicita matrice europea del film (dello stesso "girare" un film, che in fin dei conti è ridurre a schema cartesiano il reale, rappresentandolo e semplificandolo, fin dalle prime proiezioni europee e parigine dei fratelli Lumière), involontariamente dalla parte della razionalità europea e della capacità dell'uomo europeo di dominare il mondo, le cose, occupandone e suddividendone gli spazi, conferendo ad esso una forma che è la "forma-mentis normativa" (il dover essere) propria degli ultimi trecento anni della nostra storia.

Mi piace pensare che il regista non fosse consapevole di ciò, e mi piace pensare che l'idea di razionalità europea sia stata sconfessata e superata dall'Heisenberg del principio di indeterminazione, e cioè da un fisico come il fratello di Pontecorvo; ma speculare a quest'ultimo, sia per l'adesione, pur discussa, al nazismo (Pontecorvo era comunista, oltre che ebreo), sia per la successiva fuga negli Stati Uniti (Pontecorvo riparò nell'Urss di Stalin).

Eppure, per quanto superata dai fatti e sconfessata dal nazismo contro cui combattè lo stesso colonnello presente ad Algeri, la dimensione normativa della razionalità europea ogni tanto mi sembra riaffiorare, e non posso dimenticare come la cacciata dei francesi dall'Algeria, ad inizio anni '60, non abbia evitato tragedie collettive e fratricide non meno devastanti, come rammenta il volto della donna piangente di Benthala che a metà anni '90 rappresentava il dramma dell'Algeria squassata da lotte interne e fratricide.

Sono tempi indeterminati, i nostri, e solo in noi e nella nostra dimensione personale possiamo trovare una luce che ci renda meno "lucciole/che stanno nelle tenebre" (è una citazione di Battiato, ma di ascendenza biblica!). Devo ricordarmi di farlo presente anche a Simòn de Boudoir, che la possino (fatemi chiudere con un tocco di simpatia, altrimenti sembra che mi prendo troppo sul serio!!!).

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