Strano personaggio e strana scoperta (da parte mia) Giovanni Truppi.

Dr. Jekyll, Mr. Hide.

Due dischi (il secondo e il terzo) completamente folli, grezzi, pieni di idee, due dischi “cazzoni” con profondi spazi di meditazioni filosofiche manichee, in equilibrio fra Gaber, il primo Bennato (Edoardo), Rino Gaetano, il primo Vasco Rossi, Baccini, certo Capossela. Bellissimi, a loro modo, entrambi.

Il quarto raffinato, curato, politico, un disco d’altri tempi, in equilibrio fra De Andre’ (epoca Bubola), Tenco, Battiato, Baustelle e… Morgan.

Prima e dopo lo sballo, prima e dopo la major, direbbe qualcuno.

Non cerca il colpo ad effetto Truppi in “Poesia e civiltà”. Si siede e riflette.

Il tema dell’album è ben rappresentato dal filtro verde attraverso cui è fotografata la foresta in copertina (in cui la sagoma di Truppi è appena percettibile), la necessità e la voglia di assecondare la natura, e la natura umana che fa parte di essa, eliminando il superfluo, l’elemento economico e di cultura (in senso filosofico) di cui il mondo digitale è considerato l’emblema, affrontarla.

Districandosi nel bosco delle proprie insicurezze e delle proprie paure per uscirne migliori.

Ma non in solitudine.

Che poi quella foresta spesso non è altro, trasfigurato dagli anni, che lo stesso giardino del paradiso terrestre in cui più o meno tutti abbiamo vissuti gli anni migliori della nostra vita, quelli dell’infanzia, quando potevamo fare le stessa cazzate di oggi con le uniche differenze che ora la gente le prende più sul serio e che allora c’era sempre qualcuno che ti veniva a fermare (“Mia”).

Le descrizioni "paesaggistiche", splendide, di altre persone messe in confronto con quella di una persona amata (“Quando ridi”)

Canzoni che sembrano trattati antropologici (“L’unica oltre l’amore”), teologici (“Adamo”) e sociologici, e un trattato sociologico almeno in un caso una canzone lo è per davvero (“Ancient society”).

Dal punto di vista musicale, lui è un ottimo pianista, il pianoforte spesso in primo piano, code strumentali con arpeggi dal sapore quasi-prog (la già citata “L’unica oltre l’amore”).

Stile cantautorale classico anni 60/70, con una certa raffinatezza (non troppa originalità) compositiva e strumentale.

Un disco da ascoltare riflettendo e apprezzando ogni minimo dettaglio, di parole o di musica.

Pena, nel caso contrario, ritenerlo un disco palloso, sottotono e assolutamente dimenticabile, e se si giungesse a questa conclusione sarebbe davvero un peccato.

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