Cominciamo dalla fine.
Da quei 13 minuti che partono con un giro di basso ancheggiante ed insistente intorno al quale iniziano ad affiorare minuscole schegge sonore, percussioni, suoni sghembi, scampanelìì, che appaiono, svaniscono e ritornano, per consolidarsi in una stratificazione che crescendo assume un carattere sempre più ipnotico. Tredici minuti che ti avvolgono in una spirale ritmica, condita da voci cariche d’eco, picchiettata da percussioni arrotolate, chitarre sottili. E poi svuotamenti storditi che si popolano di suoni liquidi, di frammenti ripetuti e variazioni minime.
Si direbbe uno strano ibrido tra elettronica, dub fumatissimo, vocazione etnica. A me, però, è venuto in mente lo stato oscillante nel quale ti conducevano la reiterazioni chitarristiche della juju music di King Sunny Ade, nei suoi dischi a cavallo tra i ’70 e gli ‘80. Anche se il miscuglio sonoro è di tutt’altra natura, l’effetto prodotto (e voluto?) non è così distante…
Africa, quindi, ma nella versione elettrificata e modernista, che incrocia l’incompiutezza “canonica” di un approccio postmoderno nella struttura di un brano come “End West”.

E le chitarre del musicista nigeriano (o forse quelle dell'Orchestra Baobab) sembrano evocate, sposate con quelle di un Fripp in vacanza anche nel brano d’apertura di questo curioso disco difficilmente etichettabile: i 2’47’’ di “Something” sono un altro piccolo rebus, posto proprio all’ingresso, che l’ascolto del resto del disco non risolverà completamente. E’ funk, ad esempio, quello che sento nei 6’27’’ di “Analogue Shantytown”? Si, certo, un’idea scarna e raffreddata, del funk. Fondata sull’efficacia ancora ipnotica, di variazioni minime: una voce che sussurra insistentemente, un coro in falsetto che va in loop sul tappeto leggermente ossessivo dei suoni. Talking Heads senza il dono magicamente nervoso o obliquamente surreale della parola? Boh…
Il lieve trattamento circolare delle voci e dei pochi suoni del quale è fatto “Bolan Muppets”, che si scioglie nell’etereo finale, non fornisce altri termini utili alla definizione: è però un ulteriore elemento utile al composto sonoro che intanto ha definitivamente messo in moto la sua opera avvolgente intorno a noi.
Portugal Rua Rua”, che sembra voler svelare sin dal titolo qualche coordinata, almeno geografica, (che scopriremo non così scontata, accolta più come suggestione che come indicazione compositiva) nei suoi 7’09’’ è l’unica traccia ad assumere le sembianze di una canzone. Ma non rinuncia ad un’identità dilatata e circolare nei suoni delle chitarrine, come nell’insistenza della voce in apertura.

Quella che sto ascoltando non è però una recente produzione di world music: si tratta di un disco recentemente realizzato da due musicisti, Sandro Perri e Craig Dunsmuir, impegnati solitamente in altri progetti, rispettivamente Polmo Polpo (ma come li scovano certi nomi?) e Guitarkestra. Che qui paiono privilegiare uno spazio aperto per tentare di allestirlo sposando un elettronica discreta al fascino di un “minimalismo” primitivo, inteso come immersione nella circolarità reiterata del suono.

E indovinate per quale etichetta incidono i Glissandro 70?
Lo so, il dubbio è legittimo. Ma nonostante le apparenze posso assicurarvi che non percepisco alcun compenso da parte della Constellation per la recente proposta di molti loro prodotti sulle pagine di DeBaser.
Però, pensandoci bene, almeno un piccolo sconto potrei averlo meritato….

Un breve disco che, irradiando il suo piccolo incanto ipnotico, potrebbe girare ostinato nel vostro lettore così come l’anello dei suoni che rotea in lui.
Tra il 3 e il 4.
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