PUNTO PRIMO: Ipad. Un campo neutro e virtuale, nessuno suona, solo i circuiti ascoltano, presa diretta nuovo millennio  PUNTO SECONDO : nessuna band. Ossia Gorillaz. OK, dietro c'è il signor Damon Albarn, mr.Blur, ma i Gorillaz NON SONO UNA BAND. Magari occasionalmente un collettivo, ma non una band, non in senso stretto, sono una band virtuale, che esiste in un mondo fatto di etere, sintetico. E questo, a mio avviso, è il miglior modo di far parlare i personaggi sintetici che nel '98 il suddetto Albarn ha suggerito a Jamie Hewlett. Finora abbiamo visto avvicendarsi dietro una pletora di strumenti sensibili (veri) o meno un gran numero di personaggi e musicisti ma questa volta il padre del four-piece a cartoni animati per me ci ha visto giusto, lavorando da solo con uno "strumento"nuovo nuovo, futuristico se volete, e probabilmente in molti casi solo in una camera d'albergo durante il tour della sua creatura. Quindi per me questi sono i VERI Gorillaz, magari non i migliori, i fasti del primo disco per me sono irragiungibili, ma sicuramente i più vicini alla loro natura.

Passiamo quindi ai pezzi. "Phoner To Arizona" è un ottimo esercizio di ""synth"esi" per mostrarci le potenzialità del mezzo utilizzato da Albarn per comporre questi pezzi, un crescendo elettrogeno, pian piano si aggiungono diversi pezzi, la canzone si compone come un puzzle sotto l'incessante sintetizzatore saltellante, che danza attorno alla scarna batteria, e apre le porte a voci sintetizzate provenienti dai migliori anni '80 elettro. Si cambia subito registro, arriva "Revolving Doors", a parer mio il miglior pezzo del lotto, quello che mi ha fatto emozionare di più, registrata probabilmente in un "foggy day", introspettiva e malinconica gira attorno a un accordo semplice semplice di chitarra che viene pian piano sormontato dalle tastiere e dai cori e dalla bellissima voce di Damon, sembra di essere tornati ai bei tempi dei singoli Bluriani tanto si infila in testa, un leggero cambio durante i brevi bridges e poi una coda di cori, vero pop emozionale.

Sotto l'intro di "Hillybilly Man" sembra ci sia una pioggia incessante, una sera d'inverno accompagnata da una bella chitarra pulita e da un theremin lontano si trasforma però presto in una canzone da club, house piena del pathos della voce tirata, un pezzo che rimane sospeso, che non parte davvero mai, ma è questo il suo bello. Il terzo capitolo è "Detroit", paga il debito con la musica elettronica di quella città, singhiozzi di sintetizzatore accompagnano una melodia sbarazzina molto Bluriana, e una voce filtrata da un talk box alla bella moda dell'hip-hop "sperimentale" di oggi, dura poco, e ci porta a "Shytown", le cui onde sintetizzate ci cullano assieme alle tastieri provenienti dallo spazio, cristalline melodie futuribili e subito giunge Albarn, un po' fuori nota, voluto, si aggancia ai cori fino all'arrivo di qualcosa che mi ricorda un Moog, spazio settantiano, spazio infinito, naufraghiamo fuori, verso il vento che fischia sotto un basso pulsante, il basso di "Little Plastic Bags", un pezzo spooky (come il prossimo un pezzo perfetto da attribuire al "bassista" Murdoc) cantato in maniera quasi soul, leggera, incorporea, la voce rimane lontana, e fa il contrappunto al basso una tastiera inquietante.

"The Joplin Spider" si apre con una chiamata interrotta da un sintetizzatore noise che spacca le orecchie, sullo sfondo percussioni che sembrano uscite da dei Ministry lo-fi, metalliche e marziali, che fanno da cicerone alle battaglie di "beamlaser"che s'interrompono per lasciare spazio ad una canzone che par una filastrocca, il tiro rimane sempre molto industriale e inquietante fino alla fine, torna il talk box. La radio cambia stazione più e più volte fino ad assestarsi su una stazione soul dalle tinte quasi epiche ("The Parish Of Space Dust"), voci registrate ci danno il benvenuto in altri tempi, nei quali troviamo un coro gospel albionico nelle corde di Damon. Arriva l'hip-hop futuristico in piena regola, strumentale, tronfio e scuro ed esaltato dai fiati sintetici di "The Snake In Dallas".

Senza infamia nè lode il mid-tempo elettronico dell'ipnotica "Amarillo", il disco comincia ad assestarsi su tinte quasi epiche, ma un po' ripetitive, lo stesso vale per le registrazioni vocali di "The Speak It Mountains", ma sembra più uno "skit" che un pezzo, per arrivare all'elettro minimalista di "Aspen Forest", col suo pianoforte sommesso, e i disturbi da "cellulare", melodie sempre zuccherose, ma mai noiose. Rimango spiazzato dall'intro country di "Bobby In Phoenix", la chitarra piena e forte che lascia presto un po' di spazio alle tastierine anni '80 che fanno il tappeto alla voce sofferta di Bobby Womak, super-soul questo, vero, cantato con trasporto.

Siamo alle battute finale del diario di bordo, siamo probabilmente in un aeroporto in "California & The Slipping Of The Sun", la voce filtrata dal megafono saluta piano la partenza di qualcosa che potrebbe non tornare mai sotto un bordone di synth infinito, fino a che l'aereo si stacca da terra, le ali si mischiano ad un caldo vento industrial(e), e siamo alla fine con "Seattle Yodel", e il titolo dice tutto. Dopo tanta "roba" era il caso di chiudere con un niente di fatto.

Rileggendo ciò che ho scritto vedo che molti elementi tornano spesso, sarà che sono solo spunti di canzoni, sarà che il mio lessico non è molto esteso, sarà che l'Ipad non ci offre ancora tutti questi spunti e magari magari è ancora meglio suonare, fatto sta che le mie considerazioni rimangono quelle dell'inizio. Vero pensiero Gorillaziano (2011). 

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