A dispetto della copertina trucida ed aggressiva, questo è l'album più lirico e moderato del rumoroso trio americano. Gli ingredienti peculiari della loro musica sono comunque tutti al loro posto... ad esempio l'acuta e grintosa voce, a metà strada fra hard e rhythm&blues, del leader Mark Farner, e poi i particolari suoni 'alluminogeni' della sua chitarra elettrica, assemblata appunto tutta in alluminio da chissà quale sconosciuto costruttore, caratterizzata poi da un zanzaroso circuito di distorsione incorporato all'interno, nonché all'esterno da un'improbabile verniciatura mimetica. Un arnese che, qualche tempo dopo, Mark si stancherà di maneggiare e accantonerà, a favore di marche e modelli più classici, privando però in tal modo il gruppo di una parte della sua originalità.

E' onnipresente ed insostituibile come sempre il formidabile punch del basso di Mel Schacher, un musicista in grado di accentrare continuamente su di sé il sound generale grazie a suoni e grooves di creativa semplicità e robustissimo timbro. Pure al suo posto è infine la batteria, molto agile e veloce, di Don Brewer, impegnato pure a dare una mano nei cantati.

La carriera dei Grand Funk si sviluppa in una dozzina di uscite discografiche ed è facile suddividerla in due fasi: la prima è giovanile, grezza, genuina, aggressiva; hard rock senza compromessi con spruzzate persino di progressive, in formazione a trio decisamente dominato da Mark Farner, unico compositore e voce solista. La seconda è più consapevole, assai ruffiana, sempre aggressiva ma qualcosa di meno, orientata ad un pop rock con compromessi hard, in formazione a quartetto grazie all'aggiunta di un tastierista e nella quale il batterista Brewer sale sensibilmente al proscenio, firmando e cantando alcuni hit. Un vero peccato che la memoria storica su questo gruppo derivi per buona parte dalla sua seconda fase di carriera, la più commerciale e annacquata quando invece è la prima, con la sua fragranza e originalità, a tenere meglio la prova del tempo.

"Survival" appartiene ovviamente alla fase migliore, rappresentando il quarto album di studio della formazione, anno 1971. "Country Road" apre le ostilità e subito mette al loro posto gli ingredienti del caratteristico suono Grand Funk: la chitarra di Farner, tipicamente poco distorta anche se estremamente amplificata, viene quasi ingoiata dopo poche battute dal nodoso ed espanso basso di Schacher, in grado di fare un sol boccone anche del secco rullante di Brewer e di dominare in lungo e in largo questo non trascendentale incipit.

Niente di speciale anche la successiva "All You've Got Is Money", un funk rock alla Grand Funk, cioè ruvido e urlato. La prima parte è più ritmica ma devia presto su di uno strascicato riff blues, dove Farner va in assolo mentre insieme a Brewer emette una serie di urla belluine e primitive che rimandano alla copertina.

Ma il meglio viene da qui in poi: la ballata blues "Comfort Me" che segue è magnifica! Grande songwriting, capace di sprigionare addirittura classe oltre che appeal melodico. Benissimo arrangiata, gode di una strofa pacata e contenuta che poi letteralmente si libera nel ritmico ritornello, ancora lirico ma pieno di tiro grazie al lavoro melodico/ritmico del basso, di pura creatività, una gioia per le orecchie. Il tutto va avanti per oltre sei minuti senza mai annoiare... uno dei vertici non solo di quest'album ma della carriera.

Simile e ancora ottimo il trattamento che viene poi usato con la cover di "Feelin Allright". Questo mid-tempo vagamente rhythm&blues del buon Dave Mason (Traffic) viene ritmicamente rivoluzionato rispetto all'originale, scomponendolo in due parti: la strofa è strascicata, sincopata e sinuosa (non per niente Brewer vi suona un rumoroso sonaglio) e prepara la strada all'orecchiabilissimo e noto ritornello, manco a dirlo nobilitato da un giro di basso che levati, del tutto al di fuori delle possibilità sia dei Traffic che della Joe Cocker Band (coverizzatori a loro volta del brano poco tempo prima).

Il 'tiro' o ce l'hai o non ce l'hai, Traffic e Cocker non l'hanno mai avuto (hanno avuto altre cose, beninteso), i Grand Funk ce l'avevano, a palate. Confrontare le versioni per credere. Quest'album dall'inizio un po' in sordina ma che poi s'innalza via via, si mantiene ancora a buon livello (lo farà fin quasi alla fine) con "I Want Freedom", la quale include simpaticamente anche i due ultimi minuti "live in studio" prima del take vincente, quello buono per il disco, comprese un paio di false partenze. Mark Farner passa all'organo Hammond e che suono! Sopra i suoi fantastici registri sia lui che Brewer blaterano con forza una nenia gospel scolastica e stucchevole, eppure in qualche modo suggestiva. Saranno i suoni, saranno i tempi, sarà quel che sarà ma la cosa funziona: gospel maccheronico e caciarone ma schietto, sanguigno, vero.

Il brano più abbondante della raccolta si chiama "I Can Feel Him In The Morning" e deve la sua durata a un lungo preludio nel quale due bambine, del tutto spontaneamente, dialogano su ciò che è bene e ciò che è male e su ciò che hanno imparato stare al di sopra di tutti noi. Si sente che non è una cosa preparata, bensì un'opportunità colta, una registrazione carpita di loro due, perse in fanciulleschi ragionamenti. Sul parlato delle giovani voci è ancora Schacher in assolvenza a scuotere gli animi impostando uno dei suoi irresistibili giri di basso, dopodiché la bella voce di Farner si esprime nei suoi toni più lirici, ben lontani dall'abituale enfasi rock. Ancora l'organo si ritaglia parti di collegamento, un poco alla maniera progressive, ma il tutto nuovamente va a finire in gospel, visto anche il tema trattato, con parti in coro sempre più ricche e negroidi.

Chiude il lavoro un'altra cover e stavolta sono i Rolling Stones ad essere omaggiati. La canzone prescelta è l'ancor fresca (a quei tempi) "Gimme Shelter" Farner aziona da subito il suo distorsorone incorporato e riempie di fuzz il panorama sonoro, confondendo un po' il tutto, specialmente la prestazione vocale sua e del suo compare ai tamburi.

Forse il disco più vario e di classe (relativamente al genere ed allo stile proprio della band) dei Grand Funk Railroad. Sicuramente una sorpresa per chi li conosce superficialmente e quindi solo attraverso i principali, banalotti successi commerciali che seguiranno questa produzione di lì a due anni.

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