Mattinata grigia, mi attanaglia costante una buona dose di scazzo. Ho voglia di ascoltare qualcosa a cui mi ero affezionato e di cui da tempo ho perso la memoria. Rispolvero un hard-disk e sfoglio i nomi delle band. Tra uno sbadiglio e l’altro le pupille ancora spente si bloccano sui Grand Island, la cosa migliore uscita dalla Norvegia dopo il salmone affumicato.
Anche gli ottimi conterranei Motorpsycho, che sfornano album manco fossero focacce, vacillano di fronte ad un debutto folgorante come quello di “Say No To Sin” (2006), ma a parte pochi nerd seri ed i vichinghi mangia aringhe che in patria li apprezzano, i Grand Island sono stati dimenticati (da me compreso) o mai cagati dai più.
Vuoi per il cinismo del non-sistema musicale, vuoi per il periodo in cui il sound in voga era quello Franz Ferdinand, vicino per certi versi a quello di “Say No To Sin” come a quello di tante altre band insulse quali The Fratellis, a cui i norvegesi potevano essere facilmente accostati, il quintetto di Oslo ha visto spegnersi in fretta quei fievoli riflettori puntati addosso.
Questi musicisti sanno che il treno è passato da un pezzo, ciò nonostante continuano a produrre dell’ottima musica esente da fronzoli. Dal canto mio non posso far altro che lanciare un appello nel vuoto: date una chance a questo gruppo, non fate la maggioranza silenziosa, non siate omertosi: give it a try.
Ascoltando questo loro terzo lavoro “Songs From Östra Knoll 1.22” mi sono già sentito troppo in colpa e come minimo li terrò nel lettore mp3 fino al prossimo disco.
Le cose vanno così: ascolto il loro debutto, le mie pupille dallo stato di torpore passano a quello d’eccitazione, si dilatano e cominciano a roteare vorticosamente, vado a scoprire che hanno fatto uscire altri due album nel frattempo, taaac e in 5 minuti li ho scaricati.
Metto su la prima canzone “Angelila” e capisco da subito che questi miei immaginari eroi dalle folte trecce e i biondi baffi sono rimasti tali e quali, quale gioia.
Inconfondibili: banjo e hammond cardini di un suono corposo che unisce distorsioni legate a doppio filo con la già citata tastiera seventies, per ottenere stranamente un effetto opposto a quello retrò; la bella voce del vichingo Espen Gustavsen, che spazia tra rabbia, lamento, lirismo e gioco con costante grazia e gentilezza; l’impianto ritmico così energico.
Difficile fare accostamenti, ci sono troppi elementi in ballo nel rock dei Grand Island, ma non dico un’eresia affermando che a tratti ricordano i Fanfarlo (nasceranno qualche anno dopo, capitanati anch’essi da uno scandinavo) con più cattiveria e meno depressione addosso.
Le canzoni di quest’album scorrono ch’è un piacere, si parte col 1-2-3 da KO di “Angelila” - “Dawn’s Upon Me” – “Sky Sized”, pop-rock elegante e movimentato la prima, capolavoro di leggerezza folk la seconda e calcio nei testicoli di un rock metafisico e frizzante che sembra uscito dalla testa di Francis Black (Pixies) la terza.
Già qui si possono fare i bagagli per la Norvegia, ma è solo l’inizio.
Si susseguono infatti uno dopo l’altro ottimi episodi come “A Crash And A Faultline”, dove i Cold War Kids finiscono per cozzare contro una nave vichinga di cori e chitarre acustiche che sfociano quasi nel medieval rock, l’allegra ballata “Suffer - Lid, Min Kjære”, la semplicità avvolgente di “Sundance & Cassidy”.
Arriva poi l’altro schiaffo gentile di “Young Wrath”, brano stupendo che si, e ci eleva 3MSC (3 metri sopra il cielo per gli ignoranti).
La chiusura del disco ha le tenue tinte pastello del pop-rock un po’ solenne un po’ romantico, che né la mistura acid-surf-west di “Drift Into Violence” né le corde nervose di “Follow” riescono a nascondere.
I Grand Island non saranno mai niente, forse un miraggio creato dal vapore che si alza la mattina tra i fiordi, forse il mitico Thor che al posto del martello imbraccia una chitarra o forse solo un’onesta rockband talentuosa.
Promemoria: ricordarsi di non dimenticare troppo spesso troppe band non ricordate.
Carico i commenti... con calma