Gli anniversari tracciano un solco spazio-temporale nelle nostre vite e per la musica hanno un significato particolare. Massimo Cotto, tra le righe del suo ultimo libro “Il Rock di padre in figli*” (vedi mia recensione), sostiene che il vero metro di giudizio per la musica sia il tempo. Se un disco dopo vent’anni viene ancora ricordato, vuol dire che ci ha lasciato qualcosa.
Per i Green Day il 2024 è un anno di ricorrenze. Si festeggiano i trent’anni di “Dookie” e i venti di “American Idiot”. Due dischi dei quali ci ricordiamo benissimo, che hanno passato a pieni voti l’esame del tempo e che ci riconducono a due epoche differenti, nonostante siano separati tra loro soltanto da un paio di lustri.
“Saviors”, il lavoro in studio nuovo di zecca della band di Billie Joe Armstrong, Tré Cool e Mike Dirnt, è al contempo la chiusura del cerchio e la celebrazione degli anni di gloria. Torna l’illustre e geniale produzione di Rob Cavallo, come a voler partecipare obbligatoriamente alla festa, avendo preso parte alle due precedenti.
Essendo l’ultimo capitolo di una trilogia, “Saviors” riprende le sonorità e i temi dei due episodi precedenti, riabbracciando il punk rock e mettendo nel cassetto il garage rock delle ultime uscite. Si torna ad additare la politica americana, come non fosse cambiato nulla in vent’anni, allineando il pensiero ai giorni nostri, con riferimenti al Trump che è stato e a quello che si teme potrebbe essere ancora. “The American Dream Is Killing Me”, primo singolo radio friendly dal ritornello martellante, mette nel mirino le teorie del complotto, l’atteggiamento verso l’immigrazione, i senzatetto e la speculazione immobiliare. Ci vuole anche dire che il sogno americano è più che altro un incubo, come ha ribadito Billie Joe in una recente intervista, tirando in ballo anche la tossicità dei social e la loro capacità di dividere le persone. Tutto quello che la musica non fa.
Il frontman dei Green Day non rinuncia neanche stavolta a trattare nei testi i problemi personali e la loro inevitabile evoluzione. Lo fa molto chiaramente in “Dilemma”, sussurrando e poi gridando “welcome to my problem, it’not an invitation, this is my dilemma…I don’t want to be a dead man walking“, tra riff da headbanging sui refrain.
Proprio di headbanging e di passato si parla nella bella “1981” (“She’s gonna bang her head like 1981“), strizzando l’occhio ai Dead Kennedys.
La copertina del disco, con tonalità rosa ad accompagnare il bianco e nero, racchiude un implicito omaggio ai Ramones e al loro “Rocket to Russia” del 1977 (scelta non credo casuale, visti i recenti fatti). L’ennesimo omaggio, dopo quello più esplicito dei Blink 182, presente nel video di “Dance with Me”, tratto dal loro ultimo lavoro.
Il bambino in copertina, che fa spallucce davanti a un evidente teatro di guerriglia urbana, si identifica perfettamente in “Coma City”, che con la sua velocità parla di una città anarchica e piena di caos, tramite un miscuglio di punk rock un po’ british un po’ californiano. Stessa cosa fa “Living In The ’20s”, che punta il dito contro il mercato delle armi, ricordando amaramente la sparatoria del 2021 a Boulder, in Colorado, nel supermarket King Soopers.
"Look Ma, No Brains", “Bobby Sox” e “One Eyed Bastard”, tra le più scatenate, vogliono rivolgersi a tutte le generazioni; la voce graffia e i riff spettinano come ai vecchi tempi. Se la seconda profuma addirittura di grunge, la terza, con il ritmo singhiozzante, ricorda “Il Passeggero” di Iggy Pop”.
Nell’intera discografia della band non sono mai mancate la ballate, “Wake Me up When September Ends” su tutte ma anche la delicata e acustica “Good Riddance (Time of Your Life)”. Qui è “Father to a Son” il pezzo più introspettivo e maturo e l’episodio che ci mostra quanto i testi in questo nuovo lavoro siano addirittura più validi della musica. Gli archi accompagnano la voce di un padre che, mettendosi a nudo, promette di fare il possibile per guidare al meglio il figlio attraverso le trappole di un’epoca piena di inganni e difficoltà:
“You’re a lighthouse in a storm, from the day that you were born…Is there anything I can do. A wisdom where your heart is heading to a place you want more than I can give, father to a son“
Ribadiscono la qualità delle parole "Goodnight Adeline", "Suzie Chapstick" e "Strange Days Are Here to Stay" mentre delude un po' in tal senso il loop di "Corvette Summer". Si chiude attraverso due episodi non proprio memorabili come “Fancy Sauce” o l’eponima closing “Saviors”, fatte di arpeggi e cori con poco mordente. Essendo le ultime due tracce, danno l’impressione di aver poca voglia di incidere, perché figlie di una narrazione ormai conclusa.
Siamo ben lontani dagli anni Novanta e quel decennio ha scritto molti capitoli della storia della musica. I Green Day, volenti o nolenti, sono stati protagonisti assoluti di quel movimento che si ribellava ai classici canoni del punk, proponendo un’alternativa più spensierata, scazzata e divertente. Forse non è un caso che dal garage rock degli ultimi lavori, i tre di Berkeley abbiano voluto tornare al punk rock degli esordi. Come a voler ricordare che tutto ebbe inizio negli anni Sessanta nella terra dello zio Sam, prima di approdare in quella della Regina, facendo anche più rumore. Ce ne parla il bianco e nero della copertina, i disordini sullo sfondo, ce lo sussurrano i riferimenti ai protagonisti storici di quell’epoca ribelle e nichilista.
Adrienne Nesser, moglie di Billie Joe Armstrong (con lui dal 1994), durante un’intervista poco dopo l’uscita di “American Idiot”, confidò di non aver mai pensato che i Green Day potessero ottenere un tale riscontro di pubblico e raggiungere una longevità simile. Sono passati più di trent’anni ma sia Billie Joe che Blue, la sua storica Fernandes Stratocaster tappezzata di adesivi, sono ancora qui a ricordarci che è il tempo il vero metro di giudizio per la musica. E che non servono dischi dalla copertina pomposa o una chitarra costosa e dal nome altisonante, per conquistare più di una generazione. Questo vuol dire essere in grado di fare la storia.
E allora, lunga vita ai Green Day.
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