Direi che, con questo quarto album del 2023, il periodo di credito riguardo le altissime aspettative verso i Greta Van Fleet possa considerarsi terminato. Purtroppo, con un quasi definitivo ridimensionamento del loro effettivo peso ed importanza nel quadro dell’hard rock e del rock blues classici.
Beninteso, questi ragazzi hanno buonissimi numeri, suonano bene… A me piace in particolare come lavora il chitarrista: ha un tocco vecchia scuola autenticamente fine anni sessanta, spara fuori il suo rock blues esattamente come se contasse settant’anni sul groppone, invece che venticinque, all’epoca. Il suo suono primordiale, caldo e puntuto, è un piacere sentirlo e si passa sopra volentieri al fatto che tutti i suoi licks provengano pressoché da un unico grande maestro, quello lì, quello colla nonna cinese, il tizio che ha trasformato gli Yardbirds in Led Zeppelin, nel lontano 1968.
Per quanto riguarda il gemello cantante… che dire al proposito…: niente di nuovo, urla con encomiabile facilità e potenza su note anche assurdamente alte, caratterizzando ma anche rendendo un poco stucchevole l’ascolto dei Greta. Bravissimi suonatori infine pure gli altri due musicisti, alle prese con batterie, bassi e organi ispirati peraltro alla medesima fonte dirigibilistica dei loro compagni (che è la migliore fonte possibile e immaginabile, nel settore).
Va tutto discretamente, andrebbe tutto meglio se le canzoni, il songwriting, le composizioni, le partiture, quella faccenda lì che in definitiva resta la più importante in una proposta musicale, reggesse adeguatamente la perfetta impalcatura vintage del suono e delle esecuzioni. Invece non è che i riff, i cambi di accordo, le melodie del canto, le invenzioni strumentali siano così memorabili ed imperdibili… E’ rock blues piacevolmente retrò, di quei tempi gloriosi di quando stava in piena crescita, sano e forte, irresistibile; ma all’ultima traccia del disco ci si arriva un po’ a fatica, senza aver colto nel percorso momenti epici, imperdibili, esaltanti in grado di sostenere la voglia di riascolto e creare forti emozioni.
Forse mancano solamente, in questo album come negli altri precedenti, quel paio di pezzi capolavoro, quelli capaci di trascinare un intero disco, di far percepire con orecchie diverse anche il resto, persino gli inevitabili filler. Invece qui siamo al cospetto di un aurea mediocrità, quanto di peggio per una giovane (ma neanche più tanto, ormai: si va verso i trenta per due dei tre fratelli Kiszka) e rampante banda di hard rock arrivata al quarto capitolo.
Forse c’è ancora speranza, e il “quasi” proferito nel giudizio ad inizio rece ne è il mio personale augurio. La storia del rock conta anche realtà musicali che sono riuscite ad imbroccare la loro strada maestra solamente al quinto o sesto lavoro… chissà.
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