Che il mercato della musica stia arrancando nell’epoca dello streaming e del digitale è cosa ben nota. Come sono note le nuove strategie alle quali sono ricorse le major per tenere a galla i propri assistiti e continuare a monetizzare sulle lore spalle. Il ritorno del vinile, la pubblicazione di graphic novel abbinate a concept album oppure la registrazione di una manciata di singoli, raccolti poi in ep,che anticipano di fatto metà della tracklist del full lenght di prossima uscita. Nonché la pubblicazione di ricchi cofanetti celebrativi, anticipati da un ancora più celebrato singolo uscito da chissà dove, di pertinenza di band orfane del loro leggendario frontman. I fan accorrono come zanzare attirate dal sangue e i padri dei progetti gonfiano le tasche.

In questo caso specifico la musica cambia, anche se potrebbe non sembrare così. Con buona pace dei detrattori di qualsiasi operazione commemorativa o simil tale.

I Grey Daze sono la prima band di Chester Bennington, nata a Phoenix nel 1993 quando Chester aveva solo diciassette anni, in collaborazione con il batterista Sean Dowdell, ai quali si aggiunsero il chitarrista Jason Barnes (sostituito poi dal compianto Bobby Benish) e il bassista Jonathan Krause (sostituito poi da Mace Beyers). Con questa formazione, fatta di abbandoni e nuove acquisizioni, i Grey Daze pubblicarono due album: “Wake Me” del 1994 e “…No Sun Today” del 1997. Dopo nuove incomprensioni e litigi, la band si sciolse, poi cambiò nome in Waterface, Chester Bennington seguì Jeff Blue ed entrò negli Xero (poi Linkin Park) e il resto è storia.

Dopo un primo fallimentare tentativo di reunion nel 2002 (per onorare Bobby Benish, che aveva purtroppo i giorni contati), un secondo tentativo venne fatto quindici anni dopo per volontà della line up originale ma la morte di Chester Bennington mise il punto e la parola fine. Il tutto si tradusse in un concerto in onore di Bennington, che si tenne a Las Vegas con i Dead by Sunrise, side project del leader dei Linkin Park.

Dopo quasi due anni di silenzio, nel gennaio 2019 la band tornò in studio per incidere nuovamente alcuni brani tratti dai primi due album, con la collaborazione di Brian Welch e James Shaffer dei Korn, oltre a Chris Traynor dei Bush e Jamie Bennington, primogenito di Chester. Il lavoro ha dato vita al primo disco del dopo Bennington,“Amends”, pubblicato (caso ha voluto) il 26 giugno 2020, a tre anni esatti dalla reunion.

L’onda lunga di questo progetto ha dato vita, nel giugno scorso, al quarto album in studio,“The Phoenix”, che vede resuscitati gli ultimi dieci pezzi provenienti dal passato. Mentre il terzo disco era più malinconico e riflessivo, quest’ultimo è più aggressivo e graffiante ed è a tutti gli effetti una sorta di ultimo saluto. È stata la famiglia di Bennington, in primis la moglie Talinda, a volere questo capitolo conclusivo e nel disco, oltre al ritorno di Jamie, compaiono anche le figlie Lila e Lily, che prendono parte alla celebrazione con i cori nella quinta traccia, “Hole”. Al lavoro in studio hanno contribuito anche Dave Navarro dei Jane’sAddiction e Richard Patrick dei Filter.

I dieci brani fanno viaggiare l’ascoltatore attraverso una dimensione fatta di emozioni forti. Si percepisce la complessa emotività di chi canta, palesata attraverso i testi malinconici e a tratti ribelli. Schiaffi e carezze, attraverso uno scream primordiale e un timbro tanto grezzo quanto maturo, scomodando gli ossimori. Ci sono episodi propri del nu metal, che in quegli anni stava iniziando a delineare il suo sound, nonché tratti tipici del rock alternativo. In generale e durante tutto l’ascolto di questo disco e del suo predecessore, viene spontaneo ricollegarsi al filone grunge, che emetteva scintille in quel periodo, a circa duemila miglia di distanza dal deserto dell’Arizona.

Il lavoro di restauro fa si che il passato venga catapultato senza cadute e lividi nel nostro presente, attraverso il già moderno tratto artistico dei suoi interpreti e grazie all’apporto delle novità.

Le corde della chitarra di Dave Navarro in “Holding You” o l’ugola di Richard Patrick nel duetto di “Believe Me”, fanno luce sui tormenti dell’anima di Chester, rinfrescando quell’abito anni Novanta e rendendolo ancora piacevolmente indossabile. I sopracitati cori, guidati del timbro onirico delle figlie di Bennington in “Hole”, commuovono e portano tutto ancora più in alto, smorzando qualsiasi tipo di discussione sulla bontà di una rivisitazione come questa.

“Anything Anything”, “Drag” e "Starting To Fly" con l’opening “Saturation (Strange Love)”, quest'ultima impreziosita da un prepotente scream, sono i brani più intensi ed è qui che passa l’elettricità di un lavoro che è in definitiva il revival di qualcosa di classico che non vuole morire. "Be Your Man", "Spin" e la closing "Wake Me" sono i tre brani dal tratto più riflessivo e malinconico e di fatto rappresentano il colpo di coda del lavoro precedente.

Non c’è nulla che faccia gridare al miracolo, non ci sono nuovi orizzonti inesplorati, semmai c’è la scoperta di qualcosa che per troppo tempo è rimasto sotto una coperta impolverata. Per gli amanti di Chester Bennington è il privilegio di poter salire a bordo di un treno già passato quando c’era tanto silenzio e tremenda voglia di farsi sentire. Un’esperienza unica, che lascia in bocca un sapore intensamente amaro. Gioia e dolore. Gratitudine e rabbia. Con la consapevolezza che può esistere davvero un tempo infinito.

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