Grouper è Liz Harris, un’artista che ho scoperto un anno fa, di sera, scorgendo di sfuggita gli ultimi ascolti di Marissa Nadler (cantautrice dalla produzione altalenante per qualità e varietà).

Ruins è il suo ultimo album (datato 2014), di matrice ambient con inserti vocali velati di mistero e tensione drammatica. Le ombre sono onnipresenti nei suoi testi: ombre di amori non vissuti, non riconosciuti, desolazione.

La solitudine è vissuta come un approdo sicuro, una condizione in cui ci si può cullare sfiorati da una luce pallida e morbida. Questa luce insieme alle ombre sono descritte con cura e finezza.

Ruins rimanda ai reperti del passato, ai fossili dunque, alla vaghezza data dal tempo che trasfigura, logora e infine distrugge.

L’apertura del disco: “Made of Metal” è affidata a un rintocco graduale, rumori di fondo faunistici e poi una maniglia che si abbassa e una porta che si apre. Ed ecco che inizia l’incanto o la tortura monolitica per i detrattori. Questo perché le linee di confine tra un brano e l’altro sono molto labili, sfumate. Non si può certo parlare di cambi drastici d’atmosfera tra un brano e l’altro e se cercate le uscite ad effetto, ritornelli trascinanti o motivi immediatamente coinvolgenti questo lavoro non fa per voi.

Uno dei momenti migliori del disco è la seconda traccia “Clearing”, notevole per il testo e il cantato sussurrato che si perde tra mille vortici, fuso quasi con la musica, che a volte sembra inabissarsi per poi riemergere con chiarezza.

Lo scenario tratteggiato non lascia spazio ad alcuna soluzione consolatoria. Eppure mi verrebbe da dire che questa è musica di conforto, una coperta a scacchi posata sopra le spalle, o in testa in modo da attutire i rumori, oscurare la realtà per un attimo.

Il pianoforte è dominante in questi brani, per chi conosce già i lavori di Grouper si tratta di un particolare non di poco conto, di una sorpresa piacevole per quanto mi riguarda perché rompe con le sonorità glaciali e ben poco umane a cui ci aveva abituati.

“Lighthouse” , la quinta traccia, è dolente nel suo incedere, senza note poste a caso, è un tuffo rallentato che punta in profondità: la luce è ancora visibile mentre si precipita piano.

“Holding”, penultima traccia, è ancora una volta un momento di rara bellezza e lievità in cui troviamo condensate grazia, delicatezza, uno spiccato senso dell’armonia e di pace.

La chiusura si fa attendere, nel senso che c’è un intervallo di silenzio prima di fare capolino, come se fosse una nuvola, o la nebbia che pian piano avvolge tutto. Il paesaggio diventa rarefatto, non si distinguono più i contorni degli oggetti, degli elementi naturali.

Sembra di percepire delle presenze in questo turbine, orme di quello che è stato, i resti di qualche civiltà perduta, o più modestamente le ceneri di un qualche essere vivente che si spandono nell’aria, che la luce fa splendere prima di svanire.

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