…e nel bel mezzo del fiume lo scorpione punse la rana. Questa, stupefatta da quel gesto che li avrebbe condannati entrambi ad una morte certa, chiese allo scorpione il perché di quella follia. Lo scorpione rispose: <E’ la mia natura!>”.

La parabola della rana e dello scorpione ha sempre solleticato la mia immaginazione: quella risposta lapidaria, che non ammette nessun tipo di replica, è scolpita da sempre nella mia mente; una risposta esistenziale, netta, precisa, completa, assoluta. Ho sempre pensato che gli animali, rispetto agli esseri umani, abbiano un’esistenza molto più pregna e vivida, se non altro perché riescono a vivere nella sola cosa che esista davvero: il presente. Noi siamo diversi, siamo più complessi, abbiamo aspettative e consapevolezze che ci spingono a crederci, tra le altre cose, gli inquilini privilegiati di quel gran condominio che chiamiamo Terra. Ciò non toglie che spesso ci complichiamo la vita, facendo castelli per aria pensando al futuro o restando impantanati in oziosi struggimenti per il passato. Ha senso parlare di “natura umana”? Ci sono davvero caratteristiche innate che alimentano noi tutti? Lo scorpione ha punto la rana, ma noi? Che cosa avremmo fatto? Avremmo probabilmente avuto le reazioni più diverse; non solo per quanto riguarda il numero di persone che potremmo considerare, ma anche per il momento specifico (di vita, di umore, di energia) in cui una singola persona fosse venuta a trovarsi in una situazione paragonabile a quella dello scorpione.

Ecco, se consideriamo la “razza” dei poeti, saremmo portati a credere che siano persone dotate di una natura adamantina e inesorabile, che la loro esistenza sia quasi l’espressione inevitabile di un sentire congenito. Ma è davvero così? Baudelaire con “I Fiori del Male” ha scritto LA pietra miliare della poesia moderna, ma ciò non toglie che aveva la capacità di svestirsi dall’abito celeste di Poeta per produrre un trattato dal piglio quasi “scientifico” sugli effetti delle droghe (“I Paradisi Artificiali”), aveva un’abilità machiavellica nel costruire relazioni che favorirono la sua ascesa letteraria ed aveva una finezza ed una precisione da critico consumato nel considerare le opere altrui. Certo, tutto queste qualità non escludono il fatto di poter essere un grande poeta, ma, chissà poi perché, il Poeta per eccellenza è considerato, dalla coscienza collettiva, come colui che ha fatto prima di tutto della sua esistenza un’opera d’arte vivente, un poema senza compromessi, una rivolta perenne contro i valori precostituiti.

E allora penso ad Apollinaire. La sua vita romanzesca, la sua ricerca formale sempre in continuo divenire, il suo odio per tutto ciò che fosse stagnante, la sua eterna bonomia che malcelava un’inquietudine travolgente, persino il suo abbigliamento eccentrico; tutto di lui mi ha fatto sempre pensare ad un “purista”. I suoi due libri ufficiali di poesie, Alcools (mi perdonerete se qui rinvio ad una mia recensione precedente) e “Calligrammes” sono tra i più importanti della prima metà del novecento e mostravano un artista che, di fatto, aveva superato ampiamente le nebbie simboliste che ammantavano la poesia francese da una sessantina d’anni e che si era avventurato in una terra di nessuno che più tardi, grazie anche al suo fondamentale contributo, sarebbe stata colonizzata dai Surrealisti.

Anche quando si dedicava alla prosa, Apollinaire aveva il piglio del poeta. Ne fa testo questa raccolta di novelle “Il Poeta Assassinato” (composta nel lasso di tempo intercorso tra la pubblicazione delle sue due raccolte di poesie), dove il nostro, dopo un’attenta meditazione sull’opera di Rabelais (famoso umanista anti-rinascimentale del XVI secolo che inserì nei suoi scritti temi “bassi”, in totale controtendenza al filone classico dominante ai tempi), si fregiava di aver forgiato un nuovo genere letterario, quello “lirico-satirico”.

Il lungo racconto che apre la raccolta e che ne dà il titolo, è un po’ la sua dichiarazione d’intenti. Viene narrata la vita, addirittura dal concepimento fino alla morte, di Croniamantal, alter-ego di Apollinaire stesso. E che vita! Una sarabanda ininterrotta di situazioni inverosimili, fiabesche ed esilaranti, trasposte con una cromaticità stilistica cangiante e multiforme (sembra quasi di ascoltare i Gong di “The Flying Teapot “); i riferimenti al contemporaneo vengono puntualmente deformati, rivestiti e trascesi da una massiccia dose di raccordi a miti, leggende e simboli che vengono svuotati dai loro abituali rimandi e che si piegano di continuo all’ ilarità travolgente di Apollinaire. Le novelle che seguono ricalcano tutte lo schema di base, senza però i funambolismi irresistibili del racconto di apertura.

Leggendo il libro, è impossibile non notare l’influenza di Corbière, grande poeta di fine ottocento che ottenne il giusto riconoscimento solo dopo morto. Con “Gli Amori Gialli”, fu uno dei primi ad aver dato importanti picconate al sacro edificio simbolista ed anche lui tendeva a trasfigurare miti e simboli, corrodendoli con un sarcasmo e con un furore iconoclasta in cui però talvolta balenava una bile quasi del tutto assente in Apollinaire.

Infine, mi pare di scorgere in lontananza anche le fisionomie sciancate, i tipi bizzarri presi in occupazioni assurde, le situazioni paradossali, le leggende campestri e quelle metropolitane, che popolano il Gogol’ dei “Racconti di Pietroburgo”, ma anche quello delle “Veglie alla Fattoria Presso Dikan’ka”, dove le leggende ucraine venivano stravolte ed attualizzate dal grande scrittore russo (anch’egli, a ben guardare, un Surrealista ante-litteram).

Apollinaire morì nel 1918, poco tempo dopo la fine della Grande Guerra. Anche questo sembra un segno del destino: un mondo finiva ed un altro stava per cominciare ed Apollinaire stesso diventò uno dei simboli più inconfondibili e inimitabili del suo tempo. Mi piace pensare che, proprio alle soglie della morte, mentre un’epoca di cui lui fu uno dei più fulgidi cantori era definitivamente crollata, Apollinaire abbia pensato: “E’ la mia natura!”.

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