Capita, a volte, di avere bisogno di qualcuno che ci venga a cercare quando ci siamo persi, qualcuno che ci tenga compagnia quando ci sentiamo soli e che ci protegga quando abbiamo paura. Per Mei e Satsuki, due sorelline di quattro e undici anni, trasferitesi insieme al papà in un piccolo paesino di campagna, per stare vicino alla mamma malata, quel "qualcuno" sarà una specie di talpone gigante, dal pelo folto e morbido come quello di un gatto, i lunghi baffi e il ruggito forte e potente. Uno spirito dei boschi dormiglione, che vive nel tronco di un enorme albero di canfora e ama suonare l'ocarina al chiaro di luna.

È il 1988 quando Hayao Miyazaki, maestro indiscusso dell'animazione giapponese, ci regala quella che, ad oggi, è la sua opera più intimista e riflessiva, minimalista e quasi commovente nello sua semplicità, lontana da quella "poetica frenesia" che normalmente accompagna le sue produzioni. Un film in cui, quasi incredibilmente, il Maestro decide di lasciare in secondo piano (se non addirittura di accantonare), alcune delle tematiche a lui più care: non solo le tanto adorate macchine volanti di leonardesca memoria (qui del tutto assenti) e, più in generale, il tema del volo (relegato ad un ruolo tutto sommato marginale), ma addirittura anche quella particolare ambientazione da fantasy post bellico che tanto fascino aveva saputo donare alle gesta di Lana, Nausicaa e Sheeta nelle precedenti sceneggiature del Maestro.

Per una sorta di strana "legge del contrappasso", infatti, Miyazaki decide di inscenare la favola onirica del Totoro in una cornice per lo più "reale" e (almeno sulla carta) per nulla idilliaca: il Giappone del secondo dopoguerra. Contrariamente, però, a quanto avviene in "Una tomba per le lucciole" (uno degli episodi più tristi e drammatici dell'animazione giapponese, prodotto lo stesso anno dallo Studio Ghibli), ne "Il mio vicino Totoro" il conflitto mondiale pare essere un fatto che, se mai è avvenuto, ormai appartiene al passato, una ferita che, se mai ha segnato la terra e gli uomini, ormai si è rimarginata. Insieme alle due sorelline, ci troviamo così catapultati in una sorta di arcadia, un microcosmo in cui l'uomo pare davvero avere imparato a vivere in armonia con la natura. Proprio la natura, infatti, viene descritta come un'entità a cui gli uomini offrono un profondo rispetto, quasi una sorta di devozione: è lei a dettare i ritmi delle esistenze degli abitanti del villaggio in cui Mei e Satsuki si ritrovano a vivere, è lei a concedere cibo, acqua e protezione. Ma è la stessa natura che, a volte, sa dimostrarsi spietata, pronta a intralciare il nostro cammino e a privarci di ciò che abbiamo di più caro. La natura di Miyazaki porta sempre con se un non so che di magia e misticismo che la fa apparire come una sorta di Dea - Madre mai pienamente conoscibile. Suoi emissari e custodi sono gli spiriti, entità a cui vale la pena credere anche se non si ha la certezza della loro esistenza, esseri misteriosi che vanno rispettati e "venerati" anche se amano starsene in pace (magari nel buio di qualche soffitta abbandonata), e fanno di tutto per non farsi vedere.

L'incontro tra Totoro e la piccola Mei, finisce così per essere quasi la metafora di qualcosa di più grande: la possibilità per l'uomo "moderno" di aprire le propria esistenza alla natura e ai suoi misteri, la speranza che le nuove generazioni crescano evitando gli errori dei propri padri e sappiano progredire nel rispetto delle tradizioni. Proprio questo finisce per essere il maggiore punto di distacco con le altre produzioni di Miyazaki: la fiducia nel genere umano. La favola di Totoro pare quasi voler essere la dimostrazione che un'alternativa a Lepka e ai soldati di Indastria, a Muska e ai Sette Giorni di Fuoco, un'alternativa alla follia, all'egoismo e alle brutture dell'umanità e, soprattutto, degli adulti è davvero possibile ed è a portata di mano. Non solo la figura della saggia e benevola nonna, ma anche quella del papà professore universitario (simbolo di una scienza che finalmente non tenta di estirpare o screditare le tradizioni popolari) e, in generale, di tutti gli abitanti del villaggio (così prodighi nell'aiutarsi in caso di bisogno), regalano la visione di un'umanità che davvero non intende ripetere gli errori del passato.

Ma è soprattutto il modo in cui il regista racconta l'infanzia a rendere "Il Mio Vicino Totoro" un capolavoro. Quello di Miyazaki è un affresco sulla fanciullezza certamente dolce, affettuoso, ma soprattutto "rispettoso". Come spesso accade nei film del regista, anche in "Tonari No Totoro" le protagoniste saranno chiamate ad affrontare prove fin troppo dure e fin troppo grandi per la loro giovane età. E così Mei e Satsuki si vedranno costrette a convivere con la malattia della madre: un'incognita costante e "incombente" nella vita delle due sorelline, le quali sembrano non comprenderne fino in fondo né la causa, né la gravità. Eppure, le ingenuità, le paure, le debolezze delle piccole protagoniste, per quanto buffe, non sono mai motivo di derisione o di scherno: che siano le scene in cui la piccola Mei cerca goffamente di imitare tutti i gesti della sorella maggiore, che siano i suoi bronci indispettiti, i lacrimoni che di tanto in tanto le solcano il viso o, addirittura, la decisione folle di recarsi a piedi fino alla clinica in cui è ricoverata la madre, lo sguardo di Miyazaki sa mantenersi delicato, comprensivo, quasi "materno".

E allora non può non lasciare un retrogusto dolce-amaro pensare che, forse, l'invenzione più bella di Miyazaki è proprio il suo modo bello e poetico di concepire e rappresentare l'infanzia come qualcosa di puro, buono e semplice. Un'infanzia coraggiosa, in grado di cogliere e accogliere nelle propria vita i misteri che la circondano.

Un'infanzia davvero disposta a credere alla magia.

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