Gioca per vincere.

Quando Robert Fripp scelse di non condurre più la macchina Re Cremisi in tour, autoinfliggendosi un monastico isolamento che pareva tanto eterno quanto inevitabile, trovò rifugio a casa, dopo molto tempo. Appoggiò per un momento la chitarra al bracciolo della poltrona, lasciando che l’immaginazione viaggiasse sbrigliata. Sprofondato in quel giaciglio, aveva cominciato a mettere insieme i tasselli. Era impossibile continuare così, rifletteva, perché gli eccessi e le enormità di quei pantagruelici viaggi attorno a tutto il mondo, ora che il successo finalmente gli arrideva, avrebbero rischiato di ucciderlo, o quantomeno di mandarlo in depressione. C’era bisogno di «una formazione piccola, mobile e intelligente», come fine alternativa alla pesantezza degli ensemble rock: i grandi dinosauri del rock, ai quali inevitabilmente i KC si erano affiliati, con i loro spettacoli ingombranti e le decine di collaboratori, dai musicisti all’ultima delle groupie, avrebbero inevitabilmente segnato il passo ad altri artisti più liberi e agili, finalmente non più costretti dalle catene dello show-biz. Eravamo nel 1973. In qualche modo, Bob aveva previsto una delle cause dell’avvento del punk.

Fortuna volle che quasi nello stesso momento alla sua porta si presentasse il sodale Eno, anche lui appena fuoriuscito dai Roxy Music e anche lui con più o meno le stesse idee in testa. Con lui avrebbe inciso la doppietta "(No Pussyfooting)" ed "Evening Star" tra il 1973 e il 1975, ridefinendo ancora una volta il ruolo della chitarra nell’ambito rock.

Ora, parlare di Fripp in apertura a uno scritto su uno dei paladini del synthpop (perché di questo si tratta, non è vero?) può sembrare una (s)forzatura. Eppure, una decina d’anni dopo, Fripp ed Eno potevano essere fieri delle loro intuizioni, se è vero che i semi lanciati avevano attecchito sino a Sheffield. Martyn Ware e Ian Craig Marsh con il punk c’entravano il giusto e col prog proprio una mazza, e comunque il successo non l’avevano raggiunto né con il primo né con gli esperimenti elettronici della loro creatura Human League. Da questa ragione sociale erano stati cortesemente cacciati a pedate subito dopo "Travelogue", e appena prima del successo interplanetario di "Dare". Demoralizzati, delusi, sconfitti, venivano convinti da Bob Last, lo stesso manager che aveva architettato il loro scioglimento, a ripartire da zero ancora una volta. Il primo passo fu riprendere l’idea di cui si parlava qualche riga fa: costituire una società di produzione, dinamica e flessibile, in grado di trattare direttamente con le case discografiche. Basta gruppi sottomessi, pagati una miseria e sfruttati fino all’osso. L’avrebbero chiamata British Electric Foundation, BEF, e avrebbe aperto porte in tutto il mondo. Oltre a Fripp, gli altri modelli erano la Chic Organization e l’impero Parliament/Funkadelic di George Clinton, famoso nell’ambiente per riuscire a giostrare un’infinità di contratti con le case discografiche più disparate. Concettualmente, la BEF predicava la stessa calligrafia già portata alla luce dal duo Eno/Fripp: proporre una musica che fosse «una colonna sonora per la tua vita», in onore alla polemica antirock nata dalla volontà di abdicare alla forza rivoluzionaria della musica. Non più barricate, solo intrattenimento. Quasi quello che stava accadendo agli Human League di Don’t You Want Me.

Evidentemente non doveva essere così facile per Ware e Marsh dismettere del tutto quei panni, se è vero che il primo – irresistibile – singolo lo intitolarono (We Don’t Need This) Fascist Groove Thang e tutto aveva, il testo, l’arrangiamento, l’atmosfera, fuorché il disimpegno. L’intro è la cosa più fuorviante che vi potrà capitare di ascoltare degli Heaven 17: percussionisti provenienti da qualche parte tra Bali e un sobborgo pakistano di Londra che jammano con una tribù africana a vostra scelta. Le coordinate affiorano qualche secondo dopo: i terremotanti ritmi funk dei maestri sono la spina dorsale di tutti i pezzi. Ritmi bianchi si intende, ma pur sempre incendiari – le linee di basso sono una vera goduria per chiunque ami il funk, provare per credere. Come se non bastasse, aggiungiamo l’elettronica più all’avanguardia dell’epoca, con i ritmi della batteria elettronica Linn programmati dal non-batterista Ware. Il telaio è scintillante e gli arrangiamenti risplendono di un afflato futuristico che suona sorprendente ascoltato oggi, figuriamoci allora. Ciliegina sulla torta, l’incredibile, controllatissima ed europeissima voce del carneade baritono Glenn Gregory, tirata fuori di peso dalle sessions berlinesi del Duca.

Proprio Bowie è l’altra influenza preponderante per gli Heaven 17, come pure per la New Wave tutta (forse un giorno questa influenza verrà riconosciuta in toto, chissà…). Alzi la mano chi non sente il sax di “Heroes” nel bel mezzo di Fascist Groove Thang, o non abbia notato l’esatta divisione tra la prima parte movimentata e la seconda più riflessiva, dove i ritmi cercano di essere meno intricati e un po' più ragionati, proprio come accadeva nei primi due album della trilogia. Che poi la seconda parte sia quella meno ispirata, legata com’è a certi esperimenti post-"Travelogue", conta solo nella prospettiva degli album successivi (e di questa gli Heaven 17 avrebbero fatto tesoro).

L’album si snoda attraverso una sorta di concept, che poi in fondo è il credo su cui era stata costruita tutta la BEF, ed è anche lo stesso che ritroviamo in copertina. L’uomo contemporaneo non può più perseguire gli stessi ideali di pace amore & innocenza sbandierati nei ’60 (e rovinosamente naufragati nei ’70): da questo punto di vista, gli Heaven 17 sono punk nel senso più pieno del termine. La carriera è diventata ormai il punto focale nella vita di ogni persona, lo stesso arrivismo che ti inculcano all’università fino a quando non cominci un lavoro decente, perché solo così puoi avere un’esistenza stabile e sentirti valorizzato all’interno di una società consumistica, condita di sorrisi falsi e strette di mano come tagliole. Ware ne parlava così: «volevamo smontare la mitologia del musicista come menestrello errante che viene spennato dalla casa discografica e pagato solo per drogarsi. Era un'operazione verità: Bob Dylan potrà anche pensare di essere un ribelle, ma in realtà è un patrimonio multinazionale. Chiunque firmi per una major fa parte di un'enorme macchina commerciale. L'idea era: "Sbarazziamoci di tutta quella ipocrisia stile 'Siamo artisti, i soldi non ci interessano'. Strappiamo via la maschera e vediamo cosa c'è sotto"». In fin dei conti, la stessa strada che stavano battendo anche i Gang of Four. La seconda facciata morde il freno e tira il fiato, e prova a riflettere su di sé invece che sul mondo attorno. In questo turbinio di emozioni e stimoli, Marsh, Ware e Gregory trovano anche l’ispirazione per immaginare gli anni ’90, quando le TV via cavo trasmettono filmetti pornografici con giapponesine che attizzano gli stanchi trentenni insonni dallo stress (Geisha Boys and Temple Girls), o prefigurare la strage come unica via di uscita dalla ripetitiva apatia della ciclicità lavorativa (Let's All Make a Bomb). Qui sono le tastiere a farla da padrone, con la chitarra che passa in secondo piano: sembra che i ritmi così ballabili e forsennati del primo lato, quelli della “penthouse”, debbano essere inevitabilmente sostituiti dalle sensazioni notturne dei molteplici stimoli della late night music sintetizzata. Niente più movimento, solo raccoglimento nel pavement. In tutto questo spicca The Height of the Fighting, indiscutibilmente la vetta del lato B.

Sembra tutto deciso, ma sul finale gli Heaven 17 fanno marcia indietro, e dichiarano perentori che "vivremo molto a lungo", almeno fin quando ci sarà una pista per ballare. Ancora non ho capito se era una speranza, mancanza di coraggio o una minaccia.

Carico i commenti... con calma