La lettura di una piacevole recensione, una settimana fa, mi ha fatto riflettere su qualcosa di apparentemente banale. Il risultato è questo breve scritto che descrive un’opera gradevole, non fondamentale, che non è passata alla storia ma che, a mio avviso, merita comunque dieci minuti del mio e del vostro tempo.

Passiamo gran parte della nostra esistenza a immagazzinare ricordi “estremi”. Che si tratti di un film, un disco, un libro, una vacanza o un evento sportivo, lo celebriamo e lo ricordiamo solo se ci ha impresso un’emozione forte, positiva o negativa. È comprensibile, certo, ma così rischiamo di non assaporare la normalità, che costituisce la parte preponderante del nostro vivere. Stiliamo classifiche — top 100, top 10, top 5 — uniformandoci e finendo per perdere l’infinita gamma di colori della quotidianità. Non lo sappiamo ma forse siamo in parte ciechi: obnubilati dalla ricerca ossessiva del bello, bellissimo e brutto, bruttissimo.

Herbert Ross, passato alla storia del cinema per “Provaci ancora, Sam” e ricordato dal grande pubblico per il successo mondiale del patinato “Footloose”, dirige nel 1978 un cast sbalorditivo composto, tra gli altri, da Jane Fonda, Alan Alda, Maggie Smith, Michael Caine, Bill Cosby e Walter Matthau, confezionando un’opera nel classico formato a episodi in ambienti chiusi. La sceneggiatura, firmata da Neil Simon, racconta le vicende di cinque coppie che — per i motivi più disparati — si ritrovano al Beverly Hills Hotel nella notte degli Oscar.

Personalmente ho preferito due episodi su tutti. Quello con Jane Fonda e Alan Alda, nei panni di una coppia divorziata che discute dell’affido della figlia, presenta dialoghi affilatissimi, con un tono sarcastico irresistibile. Il livello della loro recitazione è molto alto e riesce a conferire ritmo e intensità con punte notevoli. Interessante anche il prosieguo dell’episodio, che dopo un inizio scoppiettante cambia passo e tono: la colonna sonora accompagna l’evoluzione verso una vena malinconica sempre più predominante, molto ben restituita dalla Fonda nella scena dell’addio estramamente toccante.

L’altro episodio che spicca è ancora più caustico ed è intriso fino al midollo di humor britannico, grazie al botta e risposta di una coppia snob ormai stanca, interpretata magistralmente da Michael Caine e Maggie Smith, sontuosa nella sua apparente glaciale compostezza. Lui è un opportunista marito gay, lei una famosa attrice teatrale che ha salutato, con cinico calcolo economico, il palcoscenico per il cinema pur disprezzando completamente l'ambiente ignorante. Anche qui un velo di malinconia avvolge il tutto e arricchisce l’episodio come un pizzico di sale su un dolce ben riuscito.

Gli episodi con protagonisti Bill Cosby (due coppie nello stesso intreccio) e Walter Matthau, invece, non mi hanno colpito allo stesso modo: gradevoli e ben interpretati, per carità, ma fin troppo scontati e caricaturali nel loro incedere scontato. Strappano comunque qualche risata e restano piacevoli.

Nel complesso, come anticipato, considero “California Suite” un’opera che, pur non rientrando tra le migliori del secolo scorso, merita di essere vista e apprezzata. Rischia però di essere misconosciuta ai più. Siamo spesso portati a bistrattare opere “buone” e per certi versi normali come questa perché preferiamo rivedere per l’ennesima volta un film “storico” che conosciamo a memoria e che, anche se non lo ammettiamo, ormai non ci emoziona più.

Nota: per questo ruolo Maggie Smith vinse l’Oscar come miglior attrice non protagonista nel 1979.

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