Che c'entra mai il blues con l'Irlanda, dico io? Cosa fu questa mania tutta anni ottanta di mescere il celtico con l'afro, la brughiera coi campi di cotone, la birra col whiskey? Solo una questione di mode? E così gli U2 tiravano fuori pezzi all'americana, la O'Connor impazzava con un lentone di Prince, gli scozzesi Waterboys prendevano la cittadinanza musicale irlandese con quello che era del pescatore si, ma era pur sempre Blues...

Nel 1988 esordiva un'altra stramba formazione (non certo i Pogues, comunque), pronta a rimescolare le carte da poker dentro a un mazzo da scopette da villa comunale. In questo disco vi cimenterete con un predicatore poprock, vi imbatterete nel suo gospel scatenato ("I'm Sorry") anche se maledirete gli anni '80 perché il brano è troppo keyboard-driven; batterete il piede col rhythm and blues ("Love Don't Walk This Way" e "Feet On The Ground"); vi ungerete grazie ad un pinzimonio blues, come nello specifico gli Hothouse Flowers fanno per la loro ballad "Forgiven". Fin qui, inevitabilmente, v'è la sensazione d'essere alle prese con qualcosa di già visto, già sentito, assimilato millenni orsono, la cui aggiunta del famoso pesto alla dublinese non ce lo fa passare per pietanza nuova. E' blues, è spiritual, è nero.

Lasciano però interdetti (la pietanza, se ti stupiusce, ti piace o no?) i sermoni irish di questi predicatori allucinati: a metà strada tra il fondamentalismo tutto irlandese e l'esuberanza del pastore d'una chiesetta di campagna nel Tennessee, Liam Ó Maonlaí  e la sua band abbinano ritornelli da Radio MotherMary a brani dalla struttura epico-celtica, su cui nel finale innestano sassofoni e cori spiritual; propongono pezzi con un incipit quasi sempre parlato, manco fossero tutte "Everybody Needs Somebody To Love", insomma uniscono tutto ciò "che non accomuna" le due lande in brani che seguono comunque un trend cominciato anni orsono da altra gente e da altri conterranei.

E' questo l'album dell'interlocutorio esordio per la più famosa band di buskers in quegli anni in Irlanda. Buskers perché forse, non saprei dire per suonare, ma  per le strade di Dublino si predica meglio che nei pubs.

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