Non deludono, non deludono. Anzi, migliorano. E' stata una progressione costante. Almeno fino adesso (e pare che nuovi suoni stiano prendendo forma in studio), la vicenda delle Campane Ululanti è stata una crescita passo dopo passo, album dopo album. Credere in loro era quasi un obbligo: perché già la prima zampata omonima, e sono passati ormai 8 anni, lasciava intendere che questi australiani non si sarebbero limitati a recitar la parte delle innocue meteorine alternative; perché le idee (e le influenze) erano chiare fin dagli inizi - anzi negli anni li abbiamo visti aggiornarsi, li abbiamo scoperti capaci di maturare come io stesso non avrei creduto; perché finalmente (era ora?) s'intravvedeva un gruppo che citava Mazzy Star, PJ Harvey e Radiohead senza somigliare SPUDORATAMENTE a nessuno di questi...

...e soprattutto, dico io, trovatemi una band indie/alternativa/quel che volete, che in mezzo ai soliti nomi della solita lista degli ascolti ti faccia quello degli Amon Duul-numero Due...

Ebbene si. Potevano ripetere la formula fortunata di "Radio Wars" del 2009, con sintetizzatori e drum-machine a comporre la colonna sonora di una moderna pop-wave elettronica, e invece no - cambio radicale. Con "The Loudest Engine" di due anni fa le coordinate "foniche" si spostano decisamente all'indietro nel tempo: entrano (o meglio, TORNANO - ma più incisive) le chitarre acide della California sessantottina (Jefferson Airplane su tutti), atmosfere più psichedeliche nel senso puro del termine e pezzi ancor meglio strutturati, abili a bilanciare ruvidità e levigatezza, assoli visionari e orecchiabilità, rock e canzone pop. L'equilibrio più difficile da trovare, l'ambizione che per tante nuove leve rimane puro miraggio e non molto di più. A quell'ambito traguardo gli Howling Bells si stanno avvicinando in maniera importante, stanno tracciando linee sempre nuove in quella direzione.

La personalità di Juanita Stein DOMINA, all'interno del quartetto di Sydney. E' lei l'autrice di testi e musiche di 11 pezzi su 12, e il pezzo che rimane ("Gold Suns, White Guns") è scritto a quattro mani col fratello Joel, chitarra solista e anima strumentale. La ragazza è una di quelle che vantano una cultura enciclopedica su decenni interi di antiquariato-Rock, ma quel che più conta è la sua destrezza nel trasferire nei suoni tutte quelle componenti che rendono la "nuova" psichedelia dei Bells qualcosa di enormemente accattivante. La chiave sta anche nella sua vocalità soave, molto melodica, perfetta per la musicalità irresistibile di "Live On" come per canzoni di puro carisma e interpretazione, qual è - fra le altre - "Sioux". Dettaglio non indifferete quanto all'immagine del gruppo - scrivono di lei come una delle più "fascinose" figure femminili della scena australiana, e sinceramente non me la sento di contraddire chi lo scrive...

...si percepisce un vago (ma neanche tanto, e lo potrete cogliere) mood "desertico" tra i pezzi di "Engine" - forse frutto del mese passato in Nevada per le registrazioni, sotto la guida di Mark Stoermer dei Killers - che da produttore non s'è comportato male, evitando eccessi o gli ammiccamenti a soluzioni più radiofoniche che si potevano temere. La lunga gavetta di spalla a superstar come Placebo e Coldplay ha garantito anche il raggiungimento di una resa molto alta a livello di esecuzioni dal vivo, e la cosa non ha potuto che influire sul modo in cui i Nostri padroneggiano lo studio. Le composizioni sono ben studiate e costruite, la band s'è presa il suo tempo e l'ha sfruttato a dovere: lungi dal riproporre il sound più patinato del predecessore, il disco rende al meglio proprio nell'interplay chitarrE/basso - cercato e trovato nei tre minuti di una perentoria "Into the Sky" da ricordare, nelle vibrazioni di "The Wilderness" che richiamano, e non casualmente, i Doors (i sentieri armonici, il suono dell'organo sul finale, ma anche lo spazio solista riservato a Joel), nel rock-blues di "Charlatan" e "Secrets".

E poi c'è la semi-acustica "Don't Run", forse l'episodio più "pop" (in accezione positiva, superfluo dirlo) ma ingigantito da un lavoro notevole di Juanita sulle parti vocali; e quella successione di accordi su "The Faith" - che ci posso fare, ho il vizio di estrapolare le note al primo ascolto... - che mi sa sorprendere quando m'aspetterei un pezzo (un minimo) più convenzionale... eppure, di banalità neanche l'ombra - nemmeno qui. La title-track è tutta California (o comunque, molto più che Australia), "Baby Blue" è un fiore notturno fra la sabbia del deserto - caratteristica degli H.B., l'ho sempre pensato fin dagli inizi, è il dono di essere SOLARI e LUNARI insieme...

Bel disco, profondamente bello.

4/5.

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