I Migliori Dischi del 2016. Un Anno di Grandi Perdite, ma anche di Grande Musica

L’anno ormai agli sgoccioli verrà ricordato, nel mondo della musica, ma anche dello spettacolo e della cultura, come un anno nefasto per quanto riguarda la scomparsa di personaggi di grande calibro. Tra questi vi sono: David Bowie, Loenard Cohen, Dario Fo, Umberto Eco, Alan Thicke, Carrie Fisher, Giorgio Albertazzi, Keith Emerson, Greg Lake e George Michael (di sicuro dimentico qualcuno, e me ne scuso).

Ma il 2016 è stato anche l’anno del – giustissimo – Nobel per la Letteratura a Bob Dylan. Molti, tra cui il nostro Baricco (e questo dovrebbe legittimare in pieno il premio assegnato a Dylan), hanno storto il naso, vuoi per invidia, vuoi per pensiero retrò. La verità è che Dylan è pura poesia che diviene musica. Come hanno giustamente sottolineato, nella loro motivazione per l’assegnazione del premio, Dylan ha preso il repertorio musicale popolare (in questo caso la tradizione Folk statunitense, e in parte anche – per eredità – anche quella europea) e l’ha proiettato in una nuova dimensione artistica, portando tale repertorio nella modernità, e ciò non è avvenuto solo con i suoi primi dischi o con la cosiddetta svolta elettrica di metà anni ‘60, ma anche con capolavori più o meno recenti quali Infedels e il bellissimo Oh Mercy, fino agli ultimissimi album dove reinterpreta in chiave del tutto personale celebri brani della popular music americana.

Ma l’anno che sta per finire ci ha regalato una serie di vere perle discografiche! Album dal valore estetico incommensurabile, ma anche capolavori che guardano a pieno titolo al futuro, reinventando canoni musicali. Un anno musicale pieno di nuove promesse, di grandi conferme, di graditi ritorni e di vecchi mostri del rock che riescono sempre a stare al passo coi tempi e con quello che Fabbri definiva il ‘il suono in cui viviamo’.

Nello stilare una top ten dei migliori dichi di quest’anno di sicuro dovrò lasciare fuori dischi che a pieno titolo avrebbero meritato di entrare in classifica, penso al bellissimo lascito musicale-poetico di Cohen, You Want It Darker: oppure all’aultima fatica musicale di Alicia Keys (la cui voce soul è sempre una goduria per le orecchie), Here; ma anche alla raccolta di vecchi brani inediti – dal sapore zappiano – del funambolico Steve Vai, Modern Primitive.

“Purtroppo” il bello e il brutto di questo tipo di gioco, quali sono le classifiche, è che uno è costretto a fare delle scelte a volte “dolorose”. Ma adesso andiamo al sodo.

10) The Gataway dei Red Hot Chli Pepper’s

Se con By The Way i Red Hot avevano iniziato un nuovo percorso (più maturo) musicale che li portava sempre più verso un sound alla Beach Boys di Pet Sounds, percorso interrotto poi dal troppo pretenzioso Stadium Arcadium e dalle sonorità funk vecchia maniera, complice anche l’ingresso del nuovo chitarrista Josh Klinghoffer, con l’ultimo The Gataway raggiungono forse quello che Kiedis e soci cercavano da decenni: un album dai toni maturi (ormai tutti componenti della band, tranne Klinghoffer, hanno superato i cinquanta), ma anche cupi e tristi per il tempo passato, ma allo stesso tempo fiduciosi per ciò che li aspetta. E se le premesse sono queste la band californiana ci offrirà musica di gran classe nei prossimi anni. The Gataway è un album che ha il tipico sound red hot, ma con le atmosfere “beatamente tristi” di chi ha vissuto tanto e in modo intenso (come i componenti della band), e per tale ragione vuole dare una svolta “matura” al proprio essere (in questo caso la musica).

9) The Hope Six Demolition Project di PJ Harvey

Particolarità della produzione musicale di PJ Harvey è sempre stata la personalizzazione estrema e unica che la cantautrice britannica fa dei vari repertori musicali; infatti nei suoi dischi ascolterete blues, grunge, punk, new have, folk, trip hop, ballata psichedelica, ma il tutto sempre – vuoi per la sua timbrica vocale unica, vuoi per la sua creatività – inconfondibilmente di matrice “sound harvey”. Lo stesso accade con l’ultimo e bellissimo, nonché tanto atteso dopo un silenzio di cinque anni, The Hope Six Demolition Project, il cui solo l’ascolto del brano The Ministry Of Social Affairs, con il suo sax scordato e fuori tempo (ahh, la bellezza dell’imperfezione), ripaga di tutto il brutto che uno ha dovuto sorbirsi durante la giornata.

8) Blues and Ballads del Brad Mehldau Trio.

Mehldau, sia con il trio sia da solo, sin dal suo esodio musicale sul finire degli anni ‘90, ha da subito proposto un “ringiovanimento” dell’interpretazione/improvvisazione degli standard Jazz; non più i classici All the Things You Are o Summertime (che comunque si possono trovare nei suoi dischi, seppur re-interpretati in una chiave del tutto nuova), ma Smels Like Teen Sprit dei Nirvana, Wonderwall degli Oasis, Paranoid Android dei Radiohead, Black Hole Sun dei Soundgarden, Teardrop dei Massive Attack. Insomma dei nuovi standard per la musica jazz. Con l’ultimo suo lavoro in trio, il talentuoso pianista di Jacksonville, ci propone un disco dal sapore un po’ vintage – vintage rispetto ai canoni a cui ci aveva abituati Mehldau – ma non per questo meno bello e con le sonorità cupe che contraddistinguono il sound mehldauniano. Blues and Ballads, da come fa intuire anche il titolo, è un omaggio alla tradizione blues e alle ballate popular americane. Su tutte spicca il meraviglioso standard blues Since I Fell For You.

7) A Moon Shaped Pool dei Radiohead

Il gruppo capitanato da Tom Yorke in tutti i propri album ci fa immergere in sonorità tipiche degli anni ‘90, le quali però, come per magia, vengono sempre catapultate nel presente in cui l’album viene proposto; lo stesso avviene con l’ultimo Moon Shaped Pool. Quindi immaginatevi tutte le sonorità anni ‘90 (il grunge, il trip hop, il new punk, il british pop) e catapultateli e immergeteli nel 2016; questo è l’ultimo bellissimo lavoro dei Radiohead.

6) Country For Old Men di John Scofield

Negli ultimi anni John Scofield ha perso un po’ della sue creatività e della sua vena avanguardistica che da sempre aveva contraddistinto i suoi lavori, penso su tutti allo spettacolare Uberjam in collaborazione con Madeski. Ma ciò non toglie che Mr. Scofield rimane sempre una delle chitarre più talentuose e piene di ritmo in circolazione. E dopo il bellissimo album omaggio a Ray Charles, questa volta sforna un album dove prende alcuni brani della tradizione country americane e li reinterpreta/improvvisa in chiave jazz, consegnandoci un disco dal groove e dalle sonorità uniche e, allo stesso tempo, “vecchio stile” ma anche moderne.

5) I Can Destroy di Paul Gilbert

Questa volta Paul Gilbert, dopo tutta una lunga serie di lavori solisti di Fusion e Progressive Rock, ci propone, con I Can Destroy, un disco che fa l’occhiolino alla sua produzione con i Mr Big. Infatti, troviamo un album pieno di blues (che la fa da padrone per buona parte dei brani), di hard rock e di power pop, il tutto suonato con la solita maestria e classe di uno dei più grandi maestri della chitarra rock degli ultimi trent’anni.

4) In My Room di Jacob Collier

Ci troviamo di fronte a un vero e proprio genio! Queste non sono parole mie (anche se le penso e le sottoscrivo in pieno), ma di Herbie Hancock e Pat Metheny, due che di musica un po’ se ne intendono, no? Collier deve il suo successo iniziale a una serie di video, auto prodotti e auto montati, su Youtube. Ma a differenza dei tanti – troppi – videomaker che spopolano in rete, qui ci troviamo di fronte a uno che la musica la conosce, l’ha studiata e la viva con tutta la sua anima. In My Room è un disco in cui Collier fa tutto da solo; lo troviamo a “giocare” con la sua particolare e bellissima voce, fare campionamenti, assoli di tastiera, giri di basso e riff di chitarra, accompagnarsi con la drum machine; creando delle sonorità che sono lo specchio (bello)dei nostri tempi. Mi sa che sentiremo molto parlare di Collier nei prossimi anni. Talento puro!

3) Loud Hailer di Jeff Beck

Se c’è un musicista della cosiddetta era del classic rock (quello a cavallo tra la seconda metà degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70) che riesce, seppur nella riconoscibilità del suo stile, a essere moderno e a noi contemporaneo questo è Mr Jeff Beck. Con la sua ultima fatica musicale, Loud Hailer, il chitarrista e compositore britannico ci propone un disco che si sente che viene dalla mente di uno (il vero e primo) dei padri dell’hard rock, ma – come sempre nei suoi dischi – vi è anche tanta giovinezza/contemporaneità, senza mai guardare o rimpiangere il passato. Così ci troviamo di fronte a pezzi rock che strizzano l’occhio al più moderno hip hop da strada, brani blues che parlano del disaggio giovanile, il tutto accompagnato e reso grandioso – oltre che dal tocco unico di sua maestà Beck – dalla voce roca e “scostumata e cattiva” di Rosie Bones (altro grande e giovane talento).

2) In Movement di Jack Dejonhnette

Qui ci troviamo di fronte alla bellezza perfetta fatta in musica. Ogni nota, ogni accordo, ogni assolo, ogni singolo passaggio del disco di Dejonhnette, magnificamente accompagnato da Ravi Coltrane e Matthew Garrison, sembra, contemporaneamente la prima e l’ultima cosa bella di tutto l’universo. Bellezza pura!

1) Ex aequo: Blackstar di David Bowie e The Meridian Suite di Antonio Sanchez

Premessa: ho scelto, alla fine, di fare un ex aequo perché di fronte alla complessità e moltitudine di bellezza e innovazione non sempre è cosa giusta fare una scelta netta.

Il duca bianco ci lascia con uno dei dischi più belli, se non il più bello, di tutta la sua sterminata produzione, ma anche con uno dei lavori musicali più belli degli ultimi decenni. Blackstar è un vero e proprio crogiolo di suoni che magnificamente si sposano tra di loro. Bowie propone una perfezione e una bellezza che non sono mai specchio di se stesse, ma che anzi vogliono e fanno di tutto per sporcarsi, rendendo il tutto di una bellezza estasiante e unica.

Con The Meridian Suite il talento strumentale di Sanchez, famoso per essere il funambolico batterista del Pat Metheny Gruop, trova una volta per tutta anche una consacrazione compositiva, e che consacrazione! Ci si trova di fronte a della musica che sembra scritta in un futuro lontano, e che viene proposta a noi tramite un viaggio a ritroso nel tempo. Qui la bellezza sembra che prenda voce dalla terra, la quale ci dice che un’epoca sta per finire e che bisogna accettare e far sì che si inauguri una nuova epoca, che la tradizione va sì tenuta in considerazione ma che questa va anche “sfidata” e superata. Perché senza coraggio, azzardo e innovazione l’arte è destinata a morire. Un bello che parte dal presente ma che si/ci proietta nel futuro.

Sicuramente molti storceranno il naso, o non saranno d’accordo sulle posizioni o suo dischi inseriti. Ma ricordiamoci che queste classifiche sono alla fine solo un gioco e un pretesto, per noi appassionati, per poter parlare di musica; quindi questi sono i dischi che maggiormente mi hanno colpito e che mi sono piaciuti in questo 2016. La vostra classifica?

Francesco Saglioccolo

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