Ian Anderson, dei celebri Jethro Tull, era dal 1983 con il buono, ma elettronico, "Walk Into Light" che non provava con un disco solista. Laddove "Walk Into Light" aveva fatto un po' storcere il naso ai fan classici dei Jethro Tull, che si aspettavano un album con genialità flautistiche e/o acustiche, e che invece si erano ritrovati un disco di musica sostanzialmente elettronica, "Divinities (Twelve Dances With God)" aveva risollevato i morali di chi si aspettava un "Walk Into Light #2".
Ancora una volta, è da considerarsi solista di Ian Anderson al 100%, poiché Martin Barre non compare e, nonostante sia più vicino alla musica dei Jethro Tull rispetto a "Walk Into Light", la musica qui proposta è abbastanza lontana da quella proposta nell'album "Roots To Branches" dello stesso anno.
E' un album di musica classica a tutti gli effetti: Ian infatti predispone di un'orchestra di sette elementi, ai quali si aggiungono i membri dei Jethro Tull: Andrew Giddings (piano e tastiere) e Doane Perry (batteria e percussioni). Ian Anderson, dimostra (se mai ce ne fosse stato bisogno) di essere un vero maestro del proprio strumento, suonando in maniera fluida e rilassante e firma delle composizioni molto più complesse di quelle che proponeva con i Jethro Tull.
Il disco ci viene presentato come un concept album strumentale ispirato a 12 divinità che danzano in posti diversi (es "En Afrique", "At Their Father's Knee").
I presupposti per un eccellente disco ci sono tutti, ma perché allora il voto è solo di tre stellette? Beh, il difetto principale di questo album è la noia, e gli arrangiamenti maestosi e curati nel minimo dettaglio che però rischiano di appesantire maggiormente i pezzi. L'esempio più lampante è la conclusiva "In The Times Of India (Bombay Valentine)", dove la bellezza della composizione è appesantita da un arrangiamento un po' prolisso e dall'eccessiva durata del brano, che termina a otto minuti. Ci sono comunque brani splendidi e perfetti come la stupenda "In The Grip Of The Stronger Stuff" (riproposta più volte dal vivo), la bella "En Afrique" e le avventurose "In The Moneylender's Temple" e "In A Black Box". Più interessante invece notare come Ian cambi punto di vista nel descrivere le religioni rispetto a "My God" e "Hymn 43" (1971) nelle quali criticava l'uso improprio della religione, mentre in questo album Ian tende a voler risaltare la parte buona delle religione, ovvero quella riflessiva e meditativa.
Insomma, l'album è senza dubbio riuscito dal punto di vista del tema, perché le composizioni sono assolutamente perfette a descrivere quello che Ian voleva descrivere, mentre risulta poco riuscito dal punto di vista degli arrangiamenti, che come già spiegato, sono studiati nei minimi dettagli e alla fine fanno suonare parte dell'album pesante e pomposo, e soprattutto rischiano di fargli perdere il senso di fluidità e di improvvisazione che caratterizza gran parte degli album dei Jethro Tull.
Ciònonostante resta un disco di buona musica, e merita comunque almeno un ascolto. Il voto più che tre sarebbe tre e mezzo.
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