Si potrebbe usare una metafora calcistica per sviscerare il comeback degli Ignite “A War Against You”.

Se fossi un improbabile allenatore di calcio e gli Ignite fossero la mia squadra tornando negli spogliatoi a fine primo tempo direi loro deluso che sono entrati in campo mosci e senza spirito di squadra, giocando in maniera leziosa e pigra.
Spronerei i miei a giocatori al rientro in campo ad uscire quegli attributi e quella fame che avevano dimostrato nell'ultima uscita (“Our Darkest Days”).

Perché la prestazione dei primi 45' di gioco delude appassionati e cronisti al seguito.
Prestazione che produce una prima frazione piatta e noiosa, da segnalare in negativo “Alive” e “Oh No Not Again” canzoni che non dicono niente e al più mi aspetto comporre da rumorosi nemici e non da loro.
La title-track ha il miglior pre-chorus del disco salvo poi in parte mostrare un po' il fianco nei ritornelli che ancora una volta non convincono del tutto. Troppa difesa, mancanza di idee e poca grinta e gli avversari applaudono e insaccano.
Salviamo “Nothing Can't Stop Me” e adesso cominciate a correre veramente però e tenete duro fino al ritorno dalle ferie dell'esimio dottor Agricola, che FCA bonifici pro-referee non ne invia dai Paesi Bassi.

Ci si aspetta il riscatto verso quelle centinaia di persone accorse e che gremiscono gli spalti e che li seguono fedelmente. Ed eccoli finalmente uscire dal tunner degli spogliatoi per il secondo tempo.

E dopo un'interlocutoria “Rise Up” finalmente arrivano le occasioni ghiotte che riequilibrano un match che sembrava perso in maniera inesorabile. Zoli Teglas finalmente ricorda di essere il bomber dall'ugola dorata capace di raggiungere estensioni notevoli e fare la differenza quando si parla di hardcore melodico ed insacca un uno-due pesante: “Where I'm From” (testo autobiografico sulle origini ungheresi da immigrati dei suoi genitori, tema che ricorre anche in altri testi qui) e “Descend” (che merita un paio di replay) in mezzo una traversa (“How Is This Progress”) e qualche altro buon cazzotto assestato con l'arbitro girato di spalle (“You Lie”).
Prima del fischio finale da annotare sul taccuino c'è “Work” ballad solare a cui ormai siamo abituati ma che risulta inferiore a “Live for Better Days”.

Tutto ciò evita la figuraccia e salva la partita che termina con un pareggio. Ma va detto che era lecito attendersi molto di più da questo team, tenendo conto che qua si fanno tre passi indietro da “Our Darkest Days” (dove la ricerca della melodia non frustava mai l'attitudine hardcore) e pure da “All Or Nothing” disco dei Pennywise con Zoli al microfono che sostituiva degnamente Jim Lindberg.

Un tempo colpevolmente regalato agli avversari. Ma esistono pur sempre la zona Cesarini e i cornuti.

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