L'essere troppo avanti coi tempi a volte non paga, succede che tiri fuori un ottimo ep, se ne accorge pure l'emissaria americana della Factory che prometti bene... assai bene, e ti fa incidere un disco, un disco che non somiglia a niente di quello venuto fuori dall'underground americano di quegli anni, la band di New York getta le basi per l'elettronica del futuro, ma tutto va a puttane, un anno dopo gli Ike Yard cessano la loro esistenza.

Puo' però succedere che passati diversi anni quel tuo disco omonimo diventi un disco di culto, che certo underground techno ti indichi come un maestro e precursore, ti inserisce nei suoi dj set, remixa i tuoi vecchi brani, ti "costringe" a tornare, butti fuori altri dischi e bang!

Resuscitano anche le vecchie registrazioni di quella che doveva essere la tua terza prova, quarantadue anni dopo la sua registrazione, quello che doveva essere il seguito ufficiale di quel capolavoro sotterraneo vede la luce... quarantadue anni sono passati e poco importa se un pugno di questi brani comparve qua e là in qualche compilation nel corso del tempo, duemilaventiquattro: la corrotta e trucida bellezza di queste registrazioni è ancora in grado di smuovere oblique inquietudini latenti.

La sottile e fitta pioggia notturna appena caduta sull'asfalto si è infilata nelle sue zozze crepe fino all'orlo, sgorga da esse come sangue da una ferita, illuminata da pochi neon intermittenti.

Il disco trasuda atmosfere noir quasi ammorbanti, racconta di ambienti disadorni, spogli e malsani, riprende il discorso dell'opera precedente, ma ne inspessisce il suono sporcandolo ed imbrattandolo di schegge rumoristiche acuminate.

C'è il groove spesso ed ombroso di "Freighter" e "S.I. (i couldn't see)" colonne sonore per crimini violenti basate su un'elettronica proto-techno ispida, squadrata, quasi geometrica, c'è un brano totale come "A Dull Life", cruda elucubrazione ansiogena ed enfatica, tutto il disco pare immerso in un'asfissiante coltre fumosa, si crogiola in una sorta di psichedelia degradata e tossica, i bassi ed i beat elettronici, lenti e densi, spingono ad una strana sorta di vigile torpore inquieto, la voce è costantemente un rado e robotico declamare distaccato.

In "Agua (Diablo)" ed in "I Killed Picasso" si assiste allo smembramento del suono Ike Yard, ridotto ai minimi termini ne viene fuori una sorta di radiografia, un'intelaiatura ossuta e scarnificata, se nella prima si intravedono già chiaramente gli stilemi della minimal techno che verrà anni dopo, nella seconda la percezione che la materia sonora si stia disperdendo secondo dopo secondo in microparticelle velenose è quasi tangibile, millenovecentoottantadue: nessuno in quegli anni suonava come gli Ike Yard, duemilaventiquattro: la loro nera giungla d'asfalto continua a sgorgare sangue dalle sue ferite.

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