Premessa: questo concerto, nei fatti e come tante altre cose che mi sono proposto di fare e mi sono girate per la testa negli ultimi mesi, non è mai esistito.
Una volta volevo vedere dal vivo Il Teatro degli Orrori e ci sono andato vicino. Prima di rassegnarmi, solo, agli orrori della nostra vita quotidiana e di ciò che è stato. Questi, questi orrori, li possiamo trovare ovunque, nelle strade della nostra città o comodamente seduti sui divani delle nostre case. Davanti alla televisione.
Ogni tanto possiamo cambiare canale. Ma i programmi sono sempre gli stessi e, davanti alle miserie del genere umano e di tutta la storia, annichilisco.

Nel novembre del duemilanove mi ero fatto una certa idea de Il teatro degli orrori. Avevo letto una qualche recensione abbastanza positiva su di una rivista specializzata che oggi compero sempre più di rado perché, se pure è vero che il web sta oramai distruggendo la carta stampata e che l’inutilità di tutte le cose sta a sua volta distruggendo il web e tutto ciò che di buono c’è nella rapida reperibilità e immediatezza della multimedialità, è pure vero che le pubblicazioni mensili non mi sono mai andate troppo a genio. Generalmente troppo pesanti e infarcite di articoli e informazioni che spesso esulano dai contenuti primari della rivista e che sovente appaiono realizzati ad hoc per allungare il brodo. Sono realizzate ad hoc per allungare il brodo.
Per rientrare in tema, “A sangue freddo”, il secondo e finora ultimo disco de Il teatro degli orrori veniva presentato come quello della consacrazione. Nei fatti poi, le cose sono andate veramente così, dato che la band, capitanata dallo One Dimensional Man Pierpaolo Capovilla, negli ultimi mesi ha ottenuto un ottimo riscontro di critica e di pubblico, tanto che la si può oramai considerare più di una delle tante band indipendenti e emergenti del buon vecchio stivale. Per quanto mi riguarda, tuttavia, da un ascolto sommario delle produzioni di Capovilla e compagni, mi ero fatto, come vi dicevo, una mia idea de Il teatro degli orrori: nel complesso non assumevo un atteggiamento di superiorità, incrollabile scetticismo e prevenzione nei confronti della band, né questa mi appariva roba esclusivamente da bambocci similar - Le luci della centrale elettrica. Solo che, se pure ci sono dei contenuti ne Il teatro degli orrori, questi mi avevano lasciato - mi lasciano ancora oggi - abbastanza indifferente.
Trovavo invece piuttosto interessante la quasi omonimia di Giulio Ragno Favero, bravo musicista e produttore di una certa relativa fama, con il Mario Pigozzo Favero poeta e leader dei Valentina Dorme, e la provenienza geografica della band, che, causa gli One Dimensional Band, collocavo nel Veneto, regione che curiosamente - ma nemmeno troppo poi - negli ultimi dieci o quindici anni ha sfornato bestialità imperdonabili quali Luca Zaia, ma anche ottime band: gli stessi Valentina Dorme e One Dimensional Man, i grandissimi e in genere dimenticati Northpole.
Insomma, questi Il eatro degli orrori mi sembravano dei tipi a posto e, quando ho saputo avrebbero suonato a Napoli, mi sono deciso a vincere la mia tradizionalmente storica pigrizia e le mie resistenze e, nonostante fosse il dodici novembre di uno degli autunni dal punto di vista climatico e meteorologico (ma non solo?) più di merda che la storia dell’Italia Meridionale e la mia personale ricordi da tanti anni a questa parte, staccato dal lavoro ho “strascicato il mio culo sulla vespa” e puntato dritto al Duel Beat, locale ove, stando alle mie frammentarie e - come vedremo in seguito assolutamente fallaci - informazioni, avrebbero suonato Capovilla, Ragno Favero e tutti gli altri. E’ da considerarsi in tale ottica significativo il fatto io abbia deciso di rimettere piede in quel postaccio, un ex cinema sconsacrato e oggi dedito alla discotecaggine e all’animazione dei giovani della Napoli più o meno bene e di cui  serbavo un pessimo ricordo da quando l'ultima volta che ci avevo messo piede avevo assistito a un concerto di Gianni Maroccolo, allora impegnato allora in un orripilante quanto inutile progetto musicale (IG) con tale Ivana Gatti. Fino a quel momento avevo considerato Maroccolo un tipo simpatico e un discreto musicista, sebbene un pessimo produttore - vedasi pure in tal senso qualche lavoro dei vari CCCP et similia e la peggiore produzione fiumaniana di sempre, quel “Il ritorno dei desideri” dove pure sono presenti canzoni tra le migliori mai scritte dal buon Federico Fiumani, ma costrette da arrangiamenti destinati a non lasciare il segno e comunque che poco hanno a che vedere con lo stile del nostro eroe - ma quella sera era andata a finire che avevo dovuto riconsiderare il mio punto di vista. Maroccolo resta un tipo simpatico, ma forse nemmeno è un grande musicista quanto piuttosto almeno un buon esecutore. Ad ogni modo, ciò che conta in tutta questa storia è che avevo di nuovo voglia di uscire, dopo tanto tempo, e questa mi sembrava una cosa buona.

Circa il Duel Beat, mi ero ovviamente riservato la facoltà di ritornarci se mai ci avesse suonato uno di questi giorni proprio Federico Fiumani, ma questa prospettiva allora appariva inverosimile e poco realistica. E così è apparsa fino allo scorso maggio, quando FF ha suonato con i suoi Diaframma in quel maledetto locale, costringendomi a rimetterci piede.

Nel novembre del duemilanove il Duel Beat si trovava - e ovviamente si trova tuttora, dato che nessuno lo ha spostato in questi mesi - al confine tra il comune di Pozzuoli e quello di Napoli, in una regione geografica generalmente meglio conosciuta come conca di Agnano e caratterizzata da un tasso di umidità non troppo dissimile a quello della bassa padana e la suggestiva presenza di geyser e fumarole sulfuree, che conferiscono alla regione tutta un aspetto mistico e caratteristico, chiaramente troppo sottovalutato dalle nostre amministrazioni e dagli operatori del settore turistico napoletano e campano. La regione è inoltre nota perché sede dell’Ippodromo di Agnano, impianto dove tradizionalmente si infrangono i sogni di chi passa le proprie giornate a sognare una vita diversa inseguendo un trotto e un galoppo, e perché infestata e militarizzata troppi anni dagli americani della NATO.
Ora, tutta questa storia e le vicende della NATO a Napoli, hanno inevitabilmente in qualche modo a che fare con la storia passata e presente della mia città e in particolare con quelle della famiglia Cimmino. E’ indubbio infatti che, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, la presenza americana in questa regione, pure tradizionalmente e storicamente difficile e troppo condizionata nei secoli dei secoli dalla presenza del Borbone o dell’Aragonese di turno e al di là delle baracconate di Renzo Arbore e dei suoi fratelli, abbia prodotto solo danni e sia stata causa di ancora oggi inarrestabile degrado e impoverimento sociale e culturale. Basta girare senza abbassare la testa per le strade della città per guardare mostri e deformazioni, storture della politica americana e capitalistica non troppo dissimili a quelle esportate con il napalm in Vietnam, con le bombe intelligenti in Afghanistan e in Iraq, con la propaganda e la televisione in tutto il mondo.
Nonno Cimmino, che per comodità chiameremo Pietro Cimmino, nasceva a Agnano i primi anni del secolo scorso. Poiché nasceva figlio di poveri contadini analfabeti e troppo e solo attaccati alla terra, la sua storia appariva segnata e destinata nei fatti a ricalcare quella vissuta nei secoli dei secoli da chi lo aveva preceduto. Ma Pietro Cimmino, che era un uomo grande e grosso come una montagna, ma nemmeno troppo intelligente, come tutto sommato molti in quegli anni e come ha sempre fatto a un certo punto della sua storia l’uomo che, come sappiamo e cantava Omero agli albori della civiltà degli esseri umani, è sempre e comunque destinato ad arrivare a un punto di rottura nella sua vita e a mettersi in viaggio, a differenza di tutti i suoi familiari decide di mollare la terra e di trasferirsi in città, a Napoli, che allora era un cesso più o meno come oggi, ma agli occhi di Pietro doveva apparire sconfinata, rivoluzionaria e persino fantascientifica.
Per determinati aspetti, questa scelta si rivelerà poco lungimirante. Pietro Cimmino, presa casa ai quartieri spagnoli, lavorerà fino ai cinquant’anni come “ragazzo di macelleria” presso una bottega del suo quartiere e morirà stroncato da un improvviso, quanto forse prevedibile data la sua mole di oltre cento chili e una condotta di vita tutto sommato poco sana e fatta di generose mangiate e bevute di vino rosso, infarto dopo aver messo al mondo nove (dico 9) figli e aver fatto una vita di merda, fatta di debitori, povertà e una nemmeno troppo breve parentesi passata tra Grecia, Albania e Sicilia a combattere, come tanti, una guerra le cui ragioni gli apparivano incomprensibili e il cui nemico, fascista e molesto, spesso lo potevi trovare tra i tuoi commilitoni piuttosto che nelle fila nemiche. Non so se abbia mai sparato a qualcuno, se abbia mai avuto paura di non tornare a casa e se sia stato qualche volta sul punto di impazzire terrorizzato da troppo orrore. Pietro Cimmino non parlava mai volentieri della sua Guerra Mondiale e degli anni di prigionia negli Stati Uniti d’America, dei campi della Georgia. Durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, oltre 50.000 italiani furono fatti prigionieri dagli americani e trasportati nei campi di prigionia statunitensi. Pietro Cimmino era tra questi e, dopo l’armistizio del 1943, come altri fu impiegato nei lavori agricoli per sostituire la manodopera americana mancante a causa della guerra. La paga era di ottanta centesimi al giorno, ma, conosciamo più o meno tutti questa storia, mio nonno non ha mai visto un centesimo dato che questa retribuzione fu poi ricevuta dallo Stato italiano e mai corrisposta agli ex prigionieri una volta rientrati sul suolo italiano.

Deve essere stato anche per tutto questo, comunque, che Pietro Cimmino ha sempre votato comunista. Certo non aveva mai letto Marx e la Russia più che una terra promessa gli doveva apparire qualcosa da evitare a tutti i costi e gli era tristemente nota per la tragica fine di molti italiani sul fronte durante la Guerra. Semplicemente gli americani e il chewing-gum non gli erano mai andati a genio, tanto più che, negli anni successivi alla guerra, quando la NATO “comperò” ampi appezzamenti di terreno ad Agnano, parte dei quali erano oramai divenuti di proprietà della famiglia Cimmino, il vecchio Pietro, rinnegato e diseredato dalla sua famiglia, ancora una volta non ne cavò nemmeno un centesimo di dollaro bucato. I Cimmino altri, invece, guadagnarono una discreta somma e aprirono un ristorante che poi esiste ancora oggi e dove si mangia bene, ma di cui mi guardo dal fare il nome in questa sede per non incappare in denunce e cause legali. Fatto sta che, anni dopo, quando Pietro morirà prematuramente lasciando la sua famiglia nei debiti e nella miseria più nera, nessuno aiuterà la vedova Cimmino e i suoi nove figli, che negli anni cresceranno nel rancore nei confronti degli americani, della loro storia passata, dei loro familiari e delle loro stesse radici. Una sete di vendetta che non ha mai trovato giustificazioni. Fino al novembre del duemilanove.

Il resto, infatti, è storia recente. Carlo Cimmino, che poi sarei io, arriva al Duel Beat che sono all’incirca le ventidue di sera. Fa un freddo cane e piove, e nello spiazzale antistante l'ingresso del locale non c’è anima viva, se non il custode dello stesso, secondo il quale il Duel avrebbe aperto i battenti non prima di un’ora e mezza o due. Mi stringo nella mia giacca a vento e, appoggiate le spalle a un cancello, immagino avrei fumato una sigaretta, se solo ne avessi avuta una, se solo avessi mai fumato. Decido che questo posto mi fa schifo e mi domando che cosa ci faccio lì, una gelida sera di novembre e sotto la pioggia, a aspettare l’apertura di quel maledetto locale. Non ho nulla contro Il teatro degli orrori, ma sinceramente nemmeno avevo intenzione di penare così tanto per un'ora e mezza di musica.
Ma le cose spesso non succedono per caso e la storia aveva voluto quella data. Sono le ventidue e trenta quando la gente comincia ad arrivare: è strana gente, di quella che non ti aspetteresti mai a un concerto di una band indie-rock o presunta tale. Ragazzine troppo volgarmente truccate in minigonna e sottili mutandine in bella vista e ragazzi rossi di lampade cancerogene. La cosa comincia a puzzare e nemmeno è tutta colpa delle emanazioni sulfuree delle fumarole. “Cosa ci faccio qui?” Mi domando e, come spesso accade nella mia vita solo apparentemente poco turbolenta, ancora prima di attendere la risposta sono già seduto sulla mia vespa, diretto verso casa, dove - avevo già deciso - mi sarei sbronzato ascoltando un disco dei Replacements.

E’ stato così che, tra le fumarole, mi sono ritrovato davanti alla storia della mia famiglia. Il ristorante faceva capolino tra i gas sulfurei delle fumarole e lungo la via che mi avrebbe portato a casa appariva come un miraggio o una allucinazione. Fosse stata una sera come le altre avrei tirato dritto per la mia strada, ma, come già detto, la storia aveva voluto quella data: io, Carlo Cimmino, avevo sete di vendetta e avrei vendicato la morte di mio nonno. Lo avrei vendicato e il cerchio si sarebbe finalmente chiuso. Solo così, pensai, la sua anima avrebbe trovato pace. Parcheggiai la vespa, lasciai un euro di mancia al parcheggiatore più o meno abusivo, e entrai all’interno del ristorante.
Il locale era rusticamente arredato con tavoli e sedie in legno e tradizionali tovaglie a quadroni rossi e bianchi. Grossi lampadari illuminavano le ampie stanze le cui pareti erano arredate da finestroni e quadri raffiguranti il Vesuvio e, in genere, il Golfo di Napoli. All’ingresso giganteggiava un forno a legna per le pizze. Mi sedetti a un tavolo e ne ordinai una, ai quattro formaggi, dopo avere sorseggiato una birra chiara in bottiglia. Cercavo di riconoscere nelle facce dei camerieri, del pizzaiolo e di tutti gli avventori del locale i tratti tipici dei Cimmino o di cogliere nei loro occhi uno sguardo colpevole, una ammissione di colpa che mi avrebbe fatto cambiare idea e placato la mia sete di vendetta. Ma tutti gli sguardi mi sembravano assenti e tutto sommato troppo poco interessati al sottoscritto, considerato a torto o a ragione un cliente come tanti. Né mi riusciva di riconoscere se tra tutti vi fossero miei lontani parenti: certo l’ampia percentuale di calvizie tra gli addetti ai lavori del ristorante lasciava immaginare almeno qualcuno di questi fosse un mio pure lontano parente, ma mi appariva troppo poco e le mie rivendicazioni, senza un soggetto cui rivolgerle, cadevano così nel vuoto o finivano annegate nel solito bicchiere di birra. Mangiai la pizza, buona, e pagai il conto. Poi mi avviai verso l’uscita.
Quanto è successo dopo forse - ma solo forse - non è realmente accaduto, ma, se mai fosse successo, io lo avrei immaginato così.

Fuori tirava un vento freddo di quelli che graffiano la faccia e invecchiano e inaridiscono l'anima e i cuori prima che la pelle, ma in compenso aveva smesso di piovere. Indossai la giacca a vento e il mio berretto di lana e, uscendo dal locale, volsi il mio sgaurdo verso il cielo, troppo scuro e affollato di nuvole grigie e che in ogni caso non promettono nulla di buono. Quindi verso la punta dei miei piedi, constatando tristemente che le mie scarpe da ginnastica parevano oramai avviate al capolinea. Mi accesi una sigaretta, erano anni che mi provavo a farmi passare il vizio del fumo, e mi fermai a aspettare accadesse qualcosa.
C’era un vecchio seduto su di una panchina, che mi scrutava con uno sguardo cinico e disinteressato, per lui probabilmente dovevo fare semplicemente parte del paesaggio e dovevo essere niente altro che uno stronzo che fumava una sigaretta una volta uscito dal ristorante e dopo aver mangiato una pizza ai quattro formaggi. e tutto sommato nemmeno era poi troppo lontano dalla verità. In lontananza si sentiva l’abbaiare dei cani che probabilmente rovistavano tra le montagne dei rifiuti della mia città. Il mondo sembrava più vicino alla fine del mondo che al suo inizio e io alla fine vincevo le mie resistenze e gli rivolgevo la parola, “Sono Carlo Cimmino, il nipote di Pietro Cimmino.”

“Lo so. Ti avevo riconosciuto. Cosa vuoi?”

“Vendetta.”

“No. Tu non cerchi vendetta. Cerchi emozioni e di dare un senso alla tua vita raccontando storie che credi di avere vissuto, ma che non ti appartengono. Pensi di risolvere i tuoi problemi facendoti carico delle ingiustizie subite dai tuoi genitori e di tutte le loro questioni irrisolte, che la tua vita sia una continuazione e appendice della loro, ma sbagli. Pensi di potere cancellare quello che è stato e di riscrivere così la storia a tuo piacimento, o almeno ti illudi di scrivere una volta tanto una buona storia della quale essere soddisfatto e che ti faccia esclamare - Oh cazzo, questa volta ne ho finalmente combinata una buona! Ma sei solo uno sciocco, Carlo Cimmino. Tutto quello che è passato è già successo e, se pure è vero che la società di oggi ti appare mostruosa e senti non ci sia giustizia a questo mondo, che questo tempo non ti appartiene, tutto quello che ti resta tra le mani è il presente e un futuro ancora da scrivere. Come tuo nonno Pietro e i tuoi genitori prima di te hanno scritto e hanno vissuto la loro vita, fatta di insuccessi e di fallimenti. Ma ne è valsa comunque la pena. Vale comunque la pena vivere la propria vita e quelli come te, Carlo Cimmino, che non hanno il coraggio di vivere la loro fino in fondo mi fanno ribrezzo."


Fu un attimo. Il vecchio si alzò in piedi di colpo, sputò a terra e sorrise guardandomi beffardo. Il cielo assunse una colorazione purpurea e lampi e tuoni squarciarono le nuvole. Il sangue mi si gelava nelle vene e le gambe presero a tremare, mentre mi scorreva davanti agli occhi tutta la mia vita passata, la vita di mio nonno, Pietro Cimmino, i campi della Georgia e le stanze del Cremlino, l’Europa divisa a metà da una cortina di ferro e tutti gli orrori delle esplosioni nucleari di Nagasaky e Hiroshima, le folli depravazioni del regime nazista e la ferocia delle milizie americane in Vietnam. La testa del vecchio si deformò, si storpiò e si deturpò fino a crescere di dimensioni inverosimili e oggettivamente poco credibili. In breve il vecchio assunse le sembianze di un gigantesco e mostruoso orco verde. Dalla sua bocca schiumava una bava viola e rideva, afono, di un suono che doveva essere troppo terribile e che potevo solo immaginare.

Mi divorò la testa, prima che tutto tornasse come prima e al Duel Beat cominciassero a fare entrare la gente. Doveva essere all'incirca mezzanotte.

Nota del recensore

Tutti i fatti e le persone raccontate in questa pagina sono effettivamente esistiti. Me compreso. Qualcuno solo nella mia testa. Ma meglio di un calcio in culo.
Quella sera Il teatro degli orrori è andato di scena nella mia città, a Casa della Musica piuttosto che al Duel Beat. Chi c’è stato, e qualcuno c’è stato, dice che è sono stati dei bei momenti e che si è divertito.

Io non ci sono stato. Evidentemente avevo sbagliato posto.

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