Se dovessi etichettare di getto questa musica al primo impatto mi verrebbe una cosa tipo: beh, fanno un rock folk prog country jazz niente male (smile che sgrana gli occhi). E con quel pop sognante-malinconico, ma sempre distaccato col suo imprinting di uno strascico colto western, ci ritroviamo in campi illuminati da trame musicali dirette ma profonde e gli strumenti, netti nel loro dichiarare limpidezza, aiutano ad immergersi in un ascolto che dà mooolte soddisfazioni.

La particolare voce di Mike Boul cattura con quel suo incedere verso una scomparsa per recuperare momenti passati, apparecchiati per noi dalle chitarre di Phil Carnet e Bill Boyle. La sezione ritmica, Kenny Kessel basso e Jim Hogland batteria, imperla il tutto di un'atmosfera gradevole di ricordi esternati al tramonto, sulla veranda di un ranch.

La resa è enfatica nell'evitare rimpianti dove le accelerazioni non sono da meno ai passaggi acustici che indicano al meglio gli orizzonti della giovane terra d'America. E c'è voglia di capire, usando una psiche occidentale, il nuovo mondo. La band si mette a disposizione della nuova energia con un piglio pionieristico che esclude varianti preventivate.

Ne esce fuori un disco che, nel porsi senza preconcetti, sorprende ancora, visto che eravamo stati abituati bene da "Scatological" del 1990 che già poteva bastare tanto fu un filtro musicale ad una tradizione folcloristica fatta di città di frontiera prefabbricate con arie che prospettavano la loro fine "fantasma".

Anche su questo si coglie quel tipo di sparizione dalla corsa all'oro, stando più sul riflesso che sulla pepita. Insomma i Levi's sono meno sporchi per la diradazione della prima polvere pionieristica. Sedimentano scivolando sui binari di un treno che inizia ad un progresso irreversibile, ricordando quelle passate ignote corse al galoppo a perforar frontiera.

Scorticante sofisticume del "cactus"...

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