L'Ira funesta non la puoi costringere in uno spazio ristretto. Quella sabbia del deserto, quella tormenta ipnotica non la puoi comprendere attraverso un supporto, una cartolina, un simulacro. Devi entrarci, abbandonartici, dissolverti nelle sue spire. Sul palco ci sono sette musicisti, e ognuno suona una sua ipnosi, deflagra, dilatando spazio e tempo. Serve un auditorium, serve la carne di quegli uomini, i loro gesti ripetuti e le nebbie insidiose dei suoni che diffondono, per dare senso a un disco del genere.
Perché non puoi morire nei gorghi del deserto mentre guidi la macchina e fai andare Spotify, non esiste che affronti la tempesta mentre te ne stai al fresco, steso sul tuo divano di casa. L'Ira ti deve prendere completamente, portare via, annichilire. Un'opera che dà tutto, come questa, ti chiede tutto in cambio. Non l'ho mai amata davvero, ascoltandola attraverso un medium, ma ero sicuro che l'avrei assaporata diversamente vedendola suonare dal vivo.
Un disco ritmico, un concerto ritmico. Ma non una didascalia tribale, piuttosto la cadenza sghemba che parte a metà di Saucerful of Secrets, un'andatura difficile, claudicante e spesso moltiplicata per due, tra la batteria e le percussioni che duettano. Intorno, un vento velenoso di sintetizzatori, un'ipnosi che si stende in spazi ampi, in giri ripetuti più e più volte. È il respiro di un gigante, non gli puoi chiedere di essere breve. Quando poi Incani accenna a cantare, ti chiedi se ci sia ancora spazio. È un lamento il suo, che si incunea tra le raffiche.
Ho viaggiato, seduto sulla mia poltrona all'Auditorium. Ho salutato il golfo di Guinea, ultimi sussulti di un sogno di pace, ma ben presto il tormento, la prigionia, il sole che infierisce su di noi. Agadez, soldati, il turbinio delle paure. La notte, uno scintillio del cielo. Il deserto che non finisce mai (una Passione di Cristo in stile Gabriel), il cammino gravoso, ma quella volta di stelle appare nelle notti e mi porta con sé, mi rapisce. Il peso dei passi, il morso della fame. Eppure in questa miseria percepisco intorno a me una bellezza strana, come se il cosmo ci stesse accarezzando.
Le follie elettroniche mi proiettano nello stupore metafisico di Klaus Schulze: si apre un varco. Il mondo di prostrazione, la Babele degli uomini - che parla un pianto incomprensibile - tocca quella magnificenza di lassù, che le sembrava irraggiungibile. Una metamorfosi, forse una morte per annegamento. Dopo il gravoso itinerario terrestre, c'è la trascendenza. (Siamo intorno al brano Piel).
Ora la musica non ha più il sapore della sabbia, è trasfigurata. Stiamo veleggiando verso una terra promessa, o si tratta invece di una Catabasi? Impossibile dirlo, i segnali sono contraddittori. Paradiso e inferno si alternano ora, alcune lungaggini ci chiedono pazienza. Alla fine arriva, eccola. Siamo immersi in un fiume di fiamme (Hajar), il tizio di fianco a me quasi rantola, non ce la fa più. Il crescendo sembra non finire mai, è insostenibile e inebriante, come un'ascesi celestiale che tuttavia porta con sé dolore. Estasi e sofferenza ora urlano insieme nelle nostre vene, l'angoscia della fine ci strangola.
Poi la dissoluzione. La perfezione della pace, l'assenza di desideri, bene e male sono compenetrati.
La banda esce per prendersi gli applausi. Il pubblico esulta, tutti si alzano. Forse alcuni si sono ripresi dal torpore, mi ricordano i colleghi del ragioniere alla fine della corazzata Kotiokmin.
L'occhio della madre! La carrozzella col bambino!
Carico i commenti... con calma