A riproduzione finita, l’ascoltatore prende coscienza di una verità riguardo “No Prayer For The Dying”: non presenta nessuna novità, c’è aria di già sentito per tutta la durata dell’album. Se si escludono gli evidenti plagi che gli Iron Maiden hanno fatto a sé stessi, c’è da dire che la musica in generale presenta delle sonorità grigie, spoglie, senza vita, “morenti” per meglio dire. I brani non hanno alcun sapore, non suggestionano, non suscitano alcuna emozione nell’animo di chi pazientemente si impegna nell’ascolto del disco, e questo si può legare al fatto che le sonorità hanno un che, o meglio, hanno più di un che di già sentito.

La band britannica, dopo due anni dall’ultimo disco di inediti, “Seventh Son of a Seventh Son”, ambizioso concept album in cui compare per la prima volta il sintetizzatore, pubblica, il 1° ottobre 1990, l’ottavo album di inediti della propria carriera, “No Prayer For The Dying”. È forse grazie al tono polemico dei testi e dello stesso titolo che “No Prayer For The Dying” si risolleva, segnando un punto a favore. Non che gli Iron Maiden non siano stati mai polemici e diretti nei loro testi in precedenza, ma il rinnovato appiglio critico di fronte alle realtà più difficili di questo mondo, tra cui la guerra, l’imperialismo, la prostituzione, il controllo delle menti esercitato dalla tv, i predicatori, la propaganda religiosa in generale, riesce a colpire e a ispirare fiducia nei confronti di un album che, se non fosse per le liriche, sarebbe assai mediocre.

Dieci tracce che si susseguono senza inciampi, un heavy metal vecchio, che sente di aver perso lo smalto, piacevole nella sua facilità, ma banale, estremamente banale. Se “Seventh Son Of A Seventh Son” aveva rappresentato l’ultima spiaggia, l’ultimo decisivo step dell’età d’oro della band, alla quale si attribuisce il merito di aver ridato vita all’heavy metal con l’esordio omonimo (Bruce Dickinson non c’era ancora), insieme ai coevi Judas Priest, “No Prayer For The Dying” è l’album che raccoglie i resti gloriosi di un’era ormai conclusa, prendendo qua e là degli estratti dalle canzoni più famose.

Bruce e compagnia bella non sono più la band di prima, ma una copia della band spentasi artisticamente nell’88. L’intro della title track è quasi identica all’intro di “Infinite Dreams” dal già citato predecessore, il fraseggio di chitarra elettrica di “The Assassin” al di sopra del quale Bruce ripete la parola del titolo quattro volte è quello di “Can I Play With Madness”, sempre da “Seventh Son Of A Seventh Son” … L’intro di “Run Silent Run Deep” assomiglia “stranamente” a “One” dei Metallica di due anni prima, mentre l’incedere violento della chitarra che segue è molto simile a quello di “Powerslave”, 1984, degli stessi Iron Maiden. Neanche “Mother Russia”, la meglio articolata dell’album, si salva, perché il momento sonoro culminante, il punto in cui il pathos prende piede somiglia molto a quello di “Hallowed Be Thy Name” dal celeberrimo “The Number Of The Beast” del 1982, primo album in cui compare l’epica voce di Dickinson che va a sostituire quella di Paul Di’Anno, uno dei vocalist più spiazzanti della storia dell’heavy metal, la cui estensione vocale può essere paragonata a quella di un big dell’heavy metal nascente, Ian Gillan.

Tirando le somme e ripetendo quanto già detto, “No Prayer For The Dying” è un album banale, ordinario, senza spina dorsale: se non mediocre, sicuramente insufficiente. Non è un album da ascoltare assolutamente, ma naturalmente, se ci si vuole fare un’idea del passaggio dalle stelle alle stalle compiuto dagli Iron Maiden, è altamente consigliato. Comunque sia, onore e gloria a Bruce and company nella buona e nella cattiva sorte, e così sia. Up the irons!

4/10

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