"Ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l'alta fantasia qui manco possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle."

So già che lo ascolterò fino a farmi male, fino a perdere il contatto con la realtà, fino al (passatemi il termine) rincoglionimento totale; voglio inebriarmi di ogni sua singola nota, di ogni suo piccolo spiraglio... E questo perchè "Panopticon" non è un disco, almeno non come noi propriamente lo intendiamo. "Panopticon" è un vero e proprio viaggio mentale, il confronto con una realtà che ci è sconosciuta ma che ci fa riscoprire noi stessi, la nostra identità, attraverso suoni e sensazioni chiaroscurali... Queste cose non le sanno fare solo i Neurosis (che tra l'altro io adoro) e compagnia, come vedete.
Il precedente (e straordinario) "Oceanic" aveva già tracciato le basi di ciò che abbiamo oggi tra le mani. Un album dove luci e ombre si rincorrevano, dove già aveva fatto capolino quella superba raffinatezza compositiva che possiamo dire propri del gruppo, che però era costellata dal dubbio, o almeno così pare dopo l'ascolto di "Panopticon". Gli Isis avevano toccato il vertice; tutti avevano capito, ormai, di avere a che fare con una band straordinaria, e forse proprio per questo nessuno, almeno credo, si sarebbe aspettato quello che invece è successo: la band ha dimostrato di aver raggiunto il vero obbiettivo che si era prefissata, a cui ancora non era arrivato "Oceanic".
L'esperienza dell'ascoltare "Panopticon" è difficile da descrivere a parole, tant'è vero che non si può nemmeno pensare con una recensione di illustrarne non tanto la bellezza quanto la sua essenza primordiale, o meglio, la sua anima, per quanto io abbia tentato di risalire a quella scintilla che ne ha permesso il concepimento. Questa volta le distorsioni si ingrossano, impregnandosi di una sensibilità new wave che si alterna ai momenti più tranquilli, facendo emergere il più cupo nichilismo così come la speranza (o l'illusione) più radiosa e folgorante; tutto ciò rimanendo nell'ambito di una percettibilità melodica che funge da semplice sostrato sul quale noi, gli ascoltatori, i veri protagonisti, andremo a tracciare le nostre sensazioni.
E' questo il vero spirito del disco: "Do Did We" parte da penetranti distorsioni per poi essere fenduta dalla più pura melodia, che si evolve fino a raggiungere la luminosità, come se fosse una risalita dal profondo. Allo stesso modo "Backlit" fa intravedere un'anima rock al suo interno, parte solare per poi tracciare degli scenari musicali a dir poco eccelsi, fino a sfociare nella malinconia più cupa della meravigliosa "In Fiction". Ancora su questa strada, la stessa "In Fiction" evolve, cambia i suoi colori e sfocia nell'ottimismo, diventa dimostrazione delle emozioni che può riuscire ad evocare una chitarra elettrica, in distorsioni metalliche e al contempo intense che non sembrano distruggere e annientare la speranza, ma al contrario costruirla e sorreggerla. E così via, in una vera e propria alternanza sinusoidale di sensazioni e sentimenti contrastanti, "Panopticon" spiazza l'ascoltatore immergendolo in un vortice di note che si costruiscono volta per volta e creano un'oceano immenso in cui perdersi non significa soltanto compiacere orecchie e cuore ma soprattutto "cercare" se stessi e "ritrovare" se stessi.
Detta in questo modo significa quasi come se gli Isis infondessero nel disco una funzione terapeutica, quando invece gli infondono solo quel qualcosa che ci lascia impietriti di fronte alla bellezza e all'immensità dell'arte pura. E se si volesse avere un'idea precisa di cosa sia questo "oceano" basta ascoltarsi "Syndic Calls" o "Altered Course", prima di sfociare nella spettacolare "Grinning Mouths", che riassume nei suoi riff architettonici l'intera anima di "Panopticon".

Non so quanto siate riusciti a capire da questa lettura, vi chiedo umilmente di perdonare le mie divagazioni ma in fondo era questo l'unico modo per tentare di descrivere un album che della "divagazione" e del "ritrovamento" fa la sua ragione di esistere. Chiedo ancora perdono per l'introduzione dantesca, può apparire borioso ed esagerato dire che il Sommo Poeta ha anticipato quell'impossibilità di prendere coscienza di fronte all'immensità che è propria del disco, ma in fondo è proprio da questo che sono partito per poter parlare di "Panopticon".
Fatevi mancare il pane, per una volta, ma per bontà divina, non un'opera come questa.

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