Fra i protagonisti del rilancio britannico del genere progressive nel corso degli anni ottanta, gli It Bites si distinguevano per un accostamento abbastanza blando a questo genere musicale, screziandolo e incasinandolo con tante altre cose: pop, new wave, glam, fusion, funk e pure metal a un certo punto; poco o niente a che vedere, quindi, con le concettuose suites dei contemporanei colleghi di genere Marillon, IQ, Pendragon, Pallas eccetera.
A mio sentire mancava loro una voce all’altezza, essendo quella del chitarrista Francis Dunnery non molto piacevole né particolarmente emozionante, benchè affidabile ed estrosa; strumentalmente il quartetto era invece brillante da ogni punto di vista, e in qualche modo originale nella sua miscellanea di Queen, Yes, Prince e chi più ne ha più ne metta. I quattro musicisti propendevano per assemblare canzoni di durata normale, contenendo le comunque presenti fughe strumentali a relativamente poche battute.
Non fa eccezione questo disco d’esordio (anno 1986), dove alcuni episodi corposi, attorno ai sei minuti di durata, vengono bilanciati da altrettanti brani contenuti in appena tre minuti e rotti. Tramite esso, il gruppo fece subito parlare molto di sé, riuscendo a entrare anche nella classifica inglese dei singoli con una versione editata (un paio di minuti sforbiciati via) di “Calling All The Heroes”, pezzo forte del disco dal discreto retrogusto di Yes, quelli non troppo cervellotici (un po’ si, però), grazie alle stratificazioni dei cori che arrivano quasi come una liberazione, dopo una melodia della strofa sghemba anzichenò. I variegati pad di sintetizzatore dell’ispirato tastierista John Beck riempiono la sezione centrale (quella omessa per creare l’hit fra i singoli) pilotando i numerosi cambi di tempo e di atmosfera e dando dimostrazione di quanto questa formazione sappia suonare veramente bene, pirotecnica ma né prolissa né tantomeno pomposa.
Anche il brano d’apertura “I Got You Eating Out Of My Hand” profuma di Yes… ritmica tosta e quel certo modo di usare i cori, però con toni più scanzonati e meno mistici. La successiva “All in Red” fu il primo singolo estratto, ma ebbe molta più fortuna il secondo di cui si è già detto sopra. Il gruppo puntava molto sul suo ritornello corale, non per niente piazzato “a cappella” subito all’inizio, ma esso viene riproposto troppo insistentemente, risultando alfine stucchevole.
Per “Whole New World” viene ingaggiata un’intera sezione fiati e ne viene fuori un numero rhythm and blues poppistico un poco alla Chicago, elegante e americaneggiante. “Screaming on the Beaches” invece è un funky rock con un bel lavoro di chitarra (Dunnery è un gran manico, se lo prese pure Robert Plant nel suo gruppo accompagnatore per un certo periodo…) che nella sezione strumentale finale duella alla grande con i sintetizzatori.
“Wanna Shout” comincia benissimo con un sensazionale riff in staccato del synth, peccato che subito dopo tutto si sieda un po’ in un altro rhythm and blues alla Hall and Oates. Per fortuna il riffone torna ogni tanto a innestare nerbo al pezzo, che gode anche di una grande produzione sulle voci, come sempre impegnate in armonie e corali: vi è un lavoro di noise gate di fino, che tronca le code riverberate dei vari cantati rendendo più dinamica e ritmica la resa generale. Lode quindi al produttore Alan Schaclock, un musicista che ho sempre ammirato (è il chitarrista, compositore e produttore dei Babe Ruth, li conoscete?).
“Turn Me Loose” parte e finisce in stile Doobie Brothers, settandosi quindi a blues funk quasi californiano, tradito solo dalla partitura virtuosa di chitarra culminante in un assolo al fulmicotone in legato, al centro di una porzione strumentale spiccatamente prog con cambi di tempo, di atmosfera, di intensità, di suoni, di tutto.
“Cold, Tired and Hungry” è la prima ballata, cadenzata ed avvolgente con un canto un poco lussurioso alla Queen, mentre l’altro lento “You’ll Never Go To Heaven” rientra fra i momenti più progressivi dell’album coi suoi sette minuti di durata, nella metà dei quali la pregiata e agilissima solista di Dunnery spadroneggia in stile fusion su di un tappeto arpeggiato di tastiere che ricorda invece i canadesi Saga. La ricca distesa di sintetizzatori, cori e contro cori delle porzioni cantate richiama peraltro il sublime art rock dei 10cc, più specificatamente la loro immortale canzone simbolo “I’m Not in Love”.
Il breve strumentale che chiude e intitola l’album è un saggio alla chitarra acustica, in stile blues ma notevolmente e abilmente trattato con creativi riverberi, di Francis Dunnery.
Gran gruppo gli It Bites, avrebbero meritato di più. Tre dischi negli anni ottanta nella loro storia, più altri due in tempi recenti dopo la ricostituzione del sodalizio (senza più Dunnery, nel frattempo diventato artista solista). Consiglio il loro recupero, nel caso non li si conosca.
Carico i commenti... con calma