La grandezza di Ivan Graziani è stata, per paradosso, la propria costante umiltà. Schivo e riservato (al confronto Battisti pareva un moderno Trimalcione), il marchigiano Ivan è stato un chitarrista straordinario quanto ingiustamente sottovalutato. La critica lo ha scoperto tardi, e il pubblico l’ha sempre snobbato. Eppure, questo splendido marziano un po’ stralunato è stato uno dei maggiori fautori del genere pop rockettaro all’ amatriciana. Un geniaccio che sapeva comporre canzoni entusiasmanti (“Lugano addio”) e travolgenti suoni ritmati di reggae (“Taglia la testa al gallo”). Un signore, prima che un artista. Dopo il successo di “Pigro” (1978) – indimenticabile la foto del porcellino in copertina – Graziani incide, nel 1980, questo interessantissimo album di fine carriera (da qui in poi comincerà, purtroppo, il periodo di declino) che mescola ballate nostalgiche e popolari a brani complessi e drammatici.

Il brano più famoso è “Firenze”, crudele racconto di un amore iniziato e finito fra le monumentali rovine di Ponte Vecchio e, parole dell’autore, del “Colosso Toscano”. Storia vera, vissuta, indimenticabile, triste: uno studente anglofono interessato allo studio della filosofia giunge in Italia, s’innamora, riesce a laurearsi e scippa la fidanzata ad un fiorentino, forse, di sangue blu. Tra il detto e il non detto, Graziani gioca l’arma, sagace, della parola contro la musica: pochi accordi, limitatissimo uso della chitarra e della batteria, moltissima emozione e tanta (forse troppa) partecipazione emotiva. Azzardo: quello studente fiorentino (forse marchigiano) a cui viene scippata la ragazza, è forse lo stesso Ivan Graziani? “Firenze” dunque è buon pop. Ma buon pop è anche “Dada”, altra vicenda drammatica narrata con toni cupi e spesso inquietanti (“La chiusero a chiave in una stanza, e poi giù botte come se piovesse, e droga in abbondanza”). Questa volta le chitarre sono più esplicite e tendono a drammatizzare, con suoni enfatici al limite dello stridore, la sofferenza e il dramma vissuto dall’ inerme protagonista. Degne di nota anche  "Siracusa", curiosa, e assai divertente, presa in giro del classicone guaglione mafioso, mentre “Angelina” è una cupa e crudele storia ambientata tra il traffico cittadino, e l’indifferenza scostante, di una grande metropoli del Nord Italia: Milano. I suoni sono sempre aspri e violenti e gli assoli di Graziani splendidi ed emozionanti. Eppure, gli arrangiamenti di Giovanni Tommaso tendono all’eccesso e alla magniloquenza forzata: certi brani, che avrebbero sicuramente meritato un più saggio e intelligente trattamento, vengono inutilmente appesantiti da alcuni sperimentalismi avanguardistici francamente inutili ed irritanti: “Olanda” ne è l’esempio migliore. E anche l’ interessante “Tutto questo cosa c’ entra con il R. & R. ?” (tema trattato: lo stupro) non incanta né affascina.

Un problema, quello degli arrangiamenti, che è stato forse il maggior cruccio, e dunque il maggior dolore, di Ivan Graziani: quante canzoni, magari bellissime, sono state sbattute alle ortiche a causa di arrangiamenti clamorosi e volgari? Ma lui, Ivan, era fondamentalmente un buono, un bonaccione: non avrebbe mai licenziato nessuno, anche a costo di rimetterci in bravura, vendite e cifra stilistica. E Giovanni Tommaso (un mezzo incapace) dovrebbe, se solo avesse un po’ di dignità, continuare a ringraziare quel gran signore di nome Ivan e di cognome Graziani.

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