Jeans Wilder è morto un paio di settimane fa. Ne dà il triste annuncio la sua pagina Facebook: cinque like, mezza dozzina di commenti tra incredulità e dolore. Provo a googlare “Jeans Wilder” anche adesso, ma non ne trovo notizia. Non so se Debaser usi una qualche sorta di tag, né se scrivere qui #jeans #wilder #dead #morto #jeanswilderdead possa servire a riparare almeno in parte; comunque la saggezza popolare dice che per trovare bisogna cercare, quindi temo che il mio tentativo possa valere solo come sterile, tardivo atto di devozione. Ho scelto Totally per questa rece-necrologio, il suo disco del duemiladodici, perché è il migliore e quello a cui sono più affezionato. Chi può sapere se ai tempi Jeans Wilder avesse il sentore di come sarebbe andata a finire, due anni dopo.

Non c’è neanche bisogno di abbandonare il tono funereo dato che qui, in particolare, le pillole di psichedelia da spiaggia vengono giù a manate, accompagnate da sorsatone al bacio di malinconia; bello che non si renda necessaria la lavanda gastrica, dopo. Ma l’incedere zoppicante di Maple Bars è quello di quando gattoni verso il bagno mentre lo stereo di là continua a mandare pezzi pop anni cinquanta. Jeans Wilder inventò per se stesso l’etichetta “dream punk”. Daisy, in chiusura, mette sul piatto quasi tutto: tappeto d’organo à la Stereolab su ritmica minimale-digitale, incantevoli irruzioni di falsetto e un’ispiratissima linea vocale, forse vagamente new-wave, addirittura. Sul tum tu-tum pa di Be My Baby, Gravity Bong fa abbioccare e sognare sulla battigia e fa anche venire l’acquolina in bocca, poi; mentre l’ingenuo clap-clap e il mostruoso filtro vocale di Sunroof sono più Wavves degli Wavves e la distortona – fino alla batteria - Dog Years suona come gli Apples in Stereo registrati in presa diretta su un vecchio Nokia, Limeade aggiunge surf e tamburello e tutto scivola giù lasciando tracce significative.

Jeans Wilder, dal canto suo, sembra essersi spento senza lasciare traccia nel mondo insignificante dell’hype dell’hip del like del bit, dei fedora e degli apericena; ma di questo, ovviamente, non dobbiamo rammaricarci. È l’amarezza che prende piede quando apri questa pagina, vedi quel bell’artwork, quella data e ti rendi conto che in realtà il prossimo disco non vedrà mai la luce, neanche come lascito postumo, ché un’operazione commerciale per lucrare sulla dipartita di Jeans Wilder non avrebbe senso, francamente. Il mondo del like ha decretato che sei persone, sei, attendevano con ansia il nuovo disco, quindi il mondo del like non sprecherebbe neanche un “poco male” per Jeans. Ma noi, che presumibilmente non siamo dei meccanismi algoritmici basati sulle tendenze, sulle liste del cazzo tipo LE DIECI CANZONI DA SPIAGGIATA FREAK, sulle autopromozioni e sulle marchette; noi, possiamo opporci all’indifferenza, celebrare la memoria e confidare – a caso – nell’eterno ritorno.

Signore, signori, alziamo quindi calici e bonghetti e ricordiamo Jeans Wilder: abbandonato sulla spiaggia, andato a fondo col suo surf tra onde e distorsioni. Un altro eroe morto per la causa della musica bella che non crea alcun interesse.

RIP JEANS WILDER

2007-2014

Andrew Caddick, invece, sta presumibilmente bene e continua a vivere a San Diego e a fare chissà cosa.

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